La Mindfulness nell’accompagnamento alla morte

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La mindfulness nell’accompagnamento alla morte, caso clinico

VIGNETTA ZEN

“ siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni, e le nostre vite sono immerse nel sonno” “We are such stuff as dreams are made of,and our little life is rounded with a sleep”

William Shakespeare

in stile con la vignetta Zen potrei dire che basterebbe solo una frase per svolgere questo argomento :”risvegliati,sii presente a tutto quello che c’è” e allo stesso tempo neanche mille volumi sarebbero sufficenti per comprendere come farlo. Ma è anche facilissimo e immediato: a volte anche un bambino lo fa. Eppure una cosa così semplice come la vera presenza amorevole nella relazione con l’altro l’ho vista rimanere costante solo in una persona: un Maestro che realizzava pienamente ciò che meditava ed insegnava. Forse queste pagine lasciate bianche lascerebbero un’ impressione più vicina a ciò che vorrei comunicare? Ognuno di voi avrebbe trovato un modo per confrontarsi con quel vuoto, assenza.Queste pagine sono solo come il dito che indica la Luna,la Luna è altrove. Come fare a spiegare il gusto della cioccolata se qualcuno che non l’ha mai mangiata? Impossibile senza l’esperienza diretta, meglio offrigliene un assaggio. Allo stesso modo la mindfulness richiede esperienza diretta e il dito(queste pagine) indica di fare esperienza, della mindfulness, dell’amorevole gentilezza, delle meditazioni sulla consapevolezza della morte e la compassione, dell’impermanenza, dell’accompagnamento al morire dell’assenza e del vuoto. Ci sono gruppi o seminari nei quali si può fare esperienza di questo.Tutti noi poi facciamo esperienza di Vita: separazioni, morte, lutti, sonno, risveglio, consapevolezza e sogni ad occhi aperti e ad occhi chiusi…Risvegliarci, accogliere,rimanere aperti a quello che c’è..ricordarci che siamo immersi in un mistero e le nostre presunte sicurezze e certezze con le quali percepiamo il mondo e ci presentiamo agli altri sono più il frutto delle nostre paure che non la Realtà… Per questo avrei forse preferito fare parlare i pazienti, trovi i loro diari sul sito ( www.silviabianchi.com)

J.Kabatz- Zinn, R.Davidson, F.Ostasesky, spesso nelle loro conferenza scientifiche portano la lettera che Einstein scrisse come risposta ad un padre che aveva perso un figlio adolescente:

“Un essere umano è una parte di un tutto,chiamato “ Universo” . Una parte limitata nel tempo e nello spazio. Egli sperimenta se stesso i suoi pensieri ed emozioni-sentimenti come qualcosa di separato dal resto– una specie di illusione ottica della sua coscienza. Questa illusione( errore) è una specie di prigione per noi , restringendoci nel nostro desiderio personale e affetto per le poche persone più vicino a noi. Il nostro compito deve essere liberarci da questa prigione allargando il nostro cerchio di compassione per abbracciare tutte le creature viventi e tutta la natura nella sua bellezza. Nessuno è capace di ottenere questo completamente , ma l’impegno per questo ottenimento è in se parte della liberazione, un fondamento per la sicurezza interna.” Albert Einstein

Marcella

Quando i medici e gli psichiatri mi raccontano di Marina ne parlano come di una persona che non è in grado di intendere e di volere, il tumore al cervello ha già fatto danni,dicono, non parla neanche più, risponde solo “ Mah!” a qualsiasi cosa tu le dica,o chieda: non capisce.

Ma invece quando incontro Marina mi parla, non fà monologhi di ore, ma mi dice cose essenziali, in modo chiaro e corretto, la sua intelligenza è innegabile

Mi lascia anche intuire il “ film giallo” violento nel quale si trova, nascosto agli occhi di tutti, e chi forse ha provato di ucciderla e di sicuro l’ha picchiata.

Com’è stato possibile questo? Perché con tutti Marina mette un muro di “Mah!” e a me invece lascia intravedere, prima di morire, che dietro il muro qualcuno c’è?

Questa realtà era sotto gli occhi di tutti,ma nessuno, me inclusa per molto tempo, la vedeva. Bastava potere essere umili ed esplorare, ascoltare, tastare il muro, accettare, sapere tastare l’elefante( come nella storia dei 6 ciechi e l’elefante che trovi anche su internet oltre che in molti testi sacri.) Inutile litigare con gli altri cechi perché a me l’elefante sembra fatto come una colonna( perché tocco la gamba) e all’altro ceco( che tocca la coda) invece sembra che come un frustino per scacciare le mosche: se so di essere ceco, di percepire la realtà in modo parziale, trovare l’elefante è facile basta che continuo ad esplorare,tastare,con pazienza e amore senza infastidire l’elefante e gli altri cechi. Siamo tutti cechi di fronte alla realtà, ne percepiamo parti sulle quali “creiamo”,costruiamo. E’ utile ricordarselo.Cosa permette a Marina di farsi sentire, pur da dietro al muro? Leggeremo nelle pagine più avanti la mia descrizione del momento nel quale Marina inizia a parlare.

Difficile rispondere in modo teorico a questa domanda.Non credo ci sia una sola risposta.La consapevolezza di non avere consapevolezza ci aiuta. Inoltre credo fermamente che qualsiasi risultato dipenda da più cause e condizioni. La realtà è complessa e misteriosa.La causa di un fiore che sboccia è il seme che è stato piantato? L’acqua che l’ha innaffiato? Il sole? La persona che l’ha piantato? Tutto questo più altro ancora? Non credo abbia senso appropriarsi delle cause di qualche cosa,anche se in questo modo tanti sono diventati ricchi e famosi e hanno pubblicato tanti libri. Certo, se mi sveglio, smetto di sognare, apro gli occhi e guardo con interesse e umiltà, curiosità e apertura ciò che ho davanti agli occhi è più facile vedere qualche cosa, siano una, nessuna o mille cause.[1] Possiamo assieme fare ipotesi sul ruolo che ha avuto la mindfulness con Marcella e la sua famiglia, preferisco esplorare assieme a voi, investigare, riconoscere e accettare, usare un metodo “ mindfulness” anche nella ricerca delle cause piuttosto che invitarvi e esplorare in modo attento tutta la vostra realtà senza certezze e poi “ vendervi la certezza” che la mindfulness di sicuro è ciò che ha aiutato Marcella e come. Vi invito ad esplorare assieme a me. E scrivermi eventualmente i vostri pensieri e le vostre scoperte.Qui per mindfulness intendo qualcosa di un po’ più ampio della definizione che Jon-Kabat-Zinn spesso usa in campo clinico : attenzione al momento presente senza giudizio, poiché scrivo delle sue applicazioni. Nel caso dell’accompagnamento alla morte la consapevolezza secondo me ha anche a che fare con lo stare con l’altro nel suo mondo, accettarlo completamente per quello che è, esserci completamente con tutto te stesso con le proprie debolezze e fragilità, rispettare il suo volere, leggere le cose dal suo punto di vista, portare il tuo solo dopo se è richiesto.Esplorare, investigare, riconoscere, non aspettare, non identificarsi, vivere la relazione come servizio e dono reciproco più che come relazione di aiuto. Condividere attraverso la presenza consapevole( e non necessariamente con le parole, meglio se le parole sono del paziente piuttosto che le nostre) la consapevolezza della morte, l’interdipendenza dell’io, e allo stesso tempo la sofferenza enorme che tutti sperimentiamo perché condividiamo tutti( pazienti, operatori, famigliari)un destino spesso per noi doloroso: tutto ciò in cui ci identifichiamo( pensiamo, sentiamo di essere) e tutto ciò che abbiamo siamo destinati a lasciarlo andare…come acqua o aria che scorre tra le mani, siamo destinati a non poterla possedere, fermare, fare nostra. Siamo costretti a lasciare andare…l’acqua,l’aria…e tutto il resto,ogni nostra identificazione, tutto ciò che sento essere “ io” e “mio” prima o dopo non lo sarà più… E’ difficile, rilassarci ed aprire le mani?Superare la paura delle mani vuote?Accettare il vuoto come si accetta un mistero e non un fallimento?Aprire i pugni, cessare gli sforzi per prendere qualcosa che non posso acchiappare nel tentativo di confermare una immagine di me che non posso fermare? Ci identifichiamo con le “foto” che facciamo di un processo in continua trasformazione. L’attimo dopo non c’è già più. Semplicemente sentire l’aria o l’acqua che passano attraverso le dita è così impossibile? Molti di noi possono farlo solo quando sono amati, contenuti, ma se non riusciamo a farlo in vita alla fine la morte lo farà per noi. Se siamo fortunati e vivremo a lungo vedremo quasi tutti i nostri cari e amici morire,tutto attorno a noi si trasformerà in modo irriconoscibile incluso il nostro corpo.E’ possibile vedere chi sta morendo come un Maestro, qualcuno che non può fare altro che confrontarsi infine con la nostra paura più grande? Con quel Vuoto( di proprietà e identità stabile) che siamo sempre stati?Scoprire che la realtà non è quella che ci siamo raccontati. Viviamo in un sogno. Non lo diciamo a nessuno ma sotto sotto ci sentiamo immortali. “Di certo non morirò ora mentre scrivo!” ma neanche questo mese o anno.”Lo sappiamo, non abbiamo nessuna certezza che sia così, eppure non riusciamo a vivere con il contatto pieno della nostra mortalità così come con altri aspetti della realtà.Preferiamo vivere in un sogno. Così facendo perdiamo la preziosità dell’ora, unico e irripetibile[2] Quante persone che ho seguito mi hanno detto “ non avrei mai immaginato…fino a 2 mesi fa stavo bene e credevo di avere ancora tutta la vita davanti a me, se solo avessi saputo che sarebbe andata così avrei fatto tutt’altro nella vita e con tutt’altre priorità”.Non possediamo per sempre , il tempo, la salute, case, oggetti, persone, lavori, relazioni, animali,il mondo, non possediamo neanche quei ruoli e quelle immagini di noi stessi ai quali ci siamo tanto legati: per quanto io sia stato un bravo padre, madre, fratello, meccanico o professore o lavoratore, cittadino o marito, moglie o compagna, solitaria o compagnone….non me lo posso portare con me per sempre,oltre la morte, c’è un momento, prima o dopo, nel quale devo lasciare andare, per scelta o per forza. Nelle lunghe malattie prima della morte questo è chiaro, una ad una crollano tutte le identità, da quella lavorativa fino a quella corporea e tutte le altre in mezzo.Non possediamo neanche i nostri pensieri e le nostre emozioni o sensazioni fisiche, anche queste, con le quali spesso ci identifichiamo ,e qualcuno ha l’illusione di controllare, non dipendono solo da noi, il corpo cambia, le condizioni esterne cambiano e noi ci ritroveremo a dire e pensare cose che non avremmo mai pensato di potere pensare:- questo non sono io!- diciamo.Eppure ci accade. In fondo abbiamo così paura di perdere ciò che abbiamo e lasciarlo andare perché sappiamo in fondo che tutto questo non ci appartiene e mai è stato nostro, “io “o “mio”. Non è quell’io e mio che noi imputiamo. Lo abbiamo sperimentato ogni volta che abbiamo perso qualcosa o qualcuno, la morte da sempre è sempre con noi, per ricordarci come stanno le cose. E’ solo grazie ad essa che da un istante può nascere quello successivo. Così come dalla larva nasce la farfalla. Se non lasciamo andare l’identificazione precedente, il momento precedente,facciamo solo uno sforzo inutile e non necessario, non viviamo nella realtà ma in una foto, immagine di questa.Un sogno che ci costruiamo.E c’è un momento nel quale la morte inizia a farsi sentire con più forza portandoci via, velocemente o lentamente tutte queste cose a cui siamo attaccati Abbiamo paura della morte ma come dice Lama Zopa, il fondatore del Karuna Hospice in Australia ” non abbiamo nessuna idea di cosa sia la Morte, quella di cui abbiamo paura è la nostra rappresentazione della morte.” Se proprio ci dobbiamo identificare con qualche cosa non sarebbe più saggio e funzionale identificarci con il cambiamento? L’impermanenza, la consapevolezza invece che con i suoi contenuti?

Possiamo immaginarci, immaginare noi stessi attraverso la metafora dello specchio? Non identificarci con le immagini riflesse, i contenuti della nostra consapevolezza( pensieri, immagini, emozioni ma anche eventi esterni e ruoli,) ,ma ricordarci la nostra natura di chiarezza, trasparenza, la nostra natura di “ specchio”, capacità di essere e riflettere ciò che ci attraversa, prenderne quella forma, identificarci e poi lasciarlo andare ,ricordando che siamo lo specchio e non i suoi contenuti? I Maestri Dzochen a volte usano questa metafora per aiutarci a capire come funzioniamo e qual è la nostra vera natura, ci invitano a ricordare questa chiarezza consapevole, a non perderci e identificarci con i contenuti, non cercare l’elefante in tutto il mondo per poi scoprire che era a casa: torna a casa. Non cercare te stesso in tutte le immagini riflesse, ricorda la tua natura di potere riflettere, conoscere e di chiarezza, la consapevolezza,che è sempre con te. Qualunque cosa tu faccia,dica, pensi o senti, possiedi o mangi, se ne sei consapevole la consapevolezza è lì con te, può essere come il soggetto che sperimenta, in relazione con l’oggetto.“Non cercare il segreto fuori, è stato nascosto nel tuo cuore” narrava una storia che mi raccontò la mia amica Cecilia quando entrambe adolescenti cercavamo in senso della vita sedute sulle scale della biblioteca. Secondo questi Maestri la morte ci costringe ad entrare in contatto con la nostra vera natura, che per qualcuno è come tornare a casa.” Ho visto persone lottare terrorizzate e disperarsi”,dice Frank Ostasesky che è stato per decenni il direttore dello Zen Hospice di San Francisco, “fino a quando non si accorgevano che quella forza terribile che li stava trascinando via, come una tromba d’aria o una montagna che ti schiaccia, quella forza terrifica che ti strappa via tutto ciò che hai e sei , era la loro natura più profonda che stava emergendo, a quel punto ho visto in loro la paura cessare e li ho visti vivere il processo della morte senza terrore.” Se solo io avessi compreso questo, quando la signora G, tredici anni fa all’ inizio di questo lavoro di accompagnamento , continuava a raccontarmi i suoi sogni: una tromba d’aria spazzava via tutto, lei cercava di chiudere la finestra della terrazza ma la tromba d’aria portava via i suoi nipotini in terrazza e lei era impotente, e avrebbe presto portato via anche lei e la sua stessa casa. Aveva un tumore incurabile ed era molto depressa, per questo me l’aveva mandata l’oncologo e palliativista con il quale collaboravo. Ero allora appena laureata in psicologia, lavoravo a Bologna. Lo ringrazio per la fiducia ma io non so se seppi aiutare molto questa signora forse, rimanemmo entrambe bloccato dentro quel sogno, intuivamo che la tromba d’aria era la morte che le avrebbe portato via tutto, lei inclusa, ma entrambe l’abbiamo vissuta come la realtà, unica e concreta, vivendo assieme il terrore dell’essere trascinati via. Ma cosa so io di che cosa è la morte? Per lei in quel momento era solo quello.I colloqui successivi furono silenzio, nel quali lei non diceva nulla, a parte “ cosa le dico? Intercalato da 10 minuti di silenzio e di nuovo un “ cosa le dico”?Io dentro provai anche rabbia e come una specie di giudizio( se non si apre e mi racconta io come la posso aiutare? ) provai a stare con quello che c’era ma la signora non venne più. Siamo rimaste entrambe bloccate dentro la realtà del terrore, il terrore del non potere più essere nulla se tutto viene spazzato via e non affiora altro? Il terrore del Vuoto. Poco dopo una donna di cinquant’anni piangeva urlando davanti a me a singhiozzi perché gli era appena morto il marito con il quale stava da trenta anni, e fece la stessa cosa in molti colloqui successivi,.Ricordo che sentii “io non la posso aiutare a sostenere questo vuoto”vedevo le persone urlare terrorizzate mentre cadevano nel vuoto o vedevano cadere nel vuoto i loro cari ed io mi sentivo impotente incapace di aiutarle, mi sono svegliata una notte , con la paura di non poterle aiutare. Ho interrotto il lavoro. Eppure quel vuoto lo avevo affrontato io stessa pochi mesi prima quando per dieci giorni i medici erano sicuri che sarei morta, e io lo sapevo, avevo sentito il terrore del corpo e la mente che partono e si muovono senza il tuo controllo, ma qualcuno c’era lì che si stava terrorizzando, che diceva “ecco, guarda il tuo corpo si muove nonostante te, non hai più nessunissima possibilità di scegliere per te, è terribile, cosa ti sta succedendo, c’è da avere paura, non è mai successo… Paura!” Ho ringraziato quando sono arrivati di corsa i medici e grazie ai farmaci ho ripreso un minimo il controllo di me. Cosa sarebbe successo se io mi fossi identificata nella consapevolezza che osservava curiosa e fiduciosa tutto invece che” con colei che non era più quella che era un minuto prima e aveva il terrore di avere perso tutto e non si fidava di ciò che stava accadendo? “Fidarsi è una cosa antica, che viene da lontano. Non è un dono che tutti hanno sempre e nonostante tutto. Eppure nelle foto che Frank ci mostrava dei “morenti” allo Zen hospice era chiaro che c’era chi aperto e fiducioso andava incontro alla morte e chi la viveva come l’ennesima fregatura che la vita gli aveva inflitto. Eppure qualunque storia di vita abbiamo avuto, attaccamento primario sicuro( questo aiuta nella vita, nella morte come nel lutto) o meno, possiamo forse piano piano allenarci ad essere la consapevolezza amorevole e fiduciosa che sta senza giudizio con quello che c’è qualsiasi cosa esso sia? Siegal nel libro Mindfulness sostiene che gli effetti contenitivi della mindfulness assomigliano a quelli dell’attaccamento primario buono e forte addirittura anche nelle risposte del nostro ( temperatura, pressione sanguigna ecc)

Allora io la conoscevo( non la chiamavo ancora mindfulness ma consapevolezza, risultati della meditazione, ecc) ma non avevo chiaro come questo mi potesse sostenere nel mio lavoro, sentivo che lo poteva fare ma non sapevo come. Anche perché qualche anno prima, 20 anni fa, mi ci vollero 3 anni per fare capire al mio analista freudiano in che modo la mindfulness mi aiutava. Quando morì mio padre ebbe un sobbalzo e infine disse “ Ah!!! Ma allora la meditazione le fà da contenitore” Smisi di lavorare per un anno,il mio supervisore me lo aveva suggerito, ho continuato la formazione. IL mio Maestro disse che trasferirmi a Pomaia all’iltk e studiare i testi sacri del Buddismo per due anni a tempo pieno: questo mi avrebbe dato la capacità di aiutare di più le persone dopo.Ho ripreso il lavoro solo un anno dopo.Ho continuato a studiare i testi sacri del Buddismo Tibetano con questo uomo eccezionale che ci chiamava Gheshe Ciampa Ghiatso , fonte infinita di consapevolezza, gioia e amore, in vita nella malattia e nella morte( mi ha davvero dato un insegnamento speciale anche per comenha affrontato il tumore ai polmoni e la morte ). Ho continuato a fare ritiri di meditazione, la scuola di psicoterapia e il tirocinio in oncologia, la mia psicoterapia personale,non saprei dire perché ma non ho più avuto quel senso di impotenza terribile del primo anno. Ho il sospetto che se cambia il rapporto con l’io, la visione-percezione del Se, quella del mondo, anche il rapporto con l’assenza e il vuoto cambia. E la nostra rappresentazione della morte cambia.Se scopro di non essere mai stato quell’io che credevo essere e ciò nonostante sono amato(amo? sono in relazione?)ho meno paura dei cambiamenti, ho meno paura del vuoto che c’è ogni volta che quello che ero non è più e non c’è ancora il nuovo. Mi permetto di passare da essere crisalide a farfalla. Lascio che accada.Non per negare l’esperienza dell’io che tutti abbiamo, e in quanto esperienza esiste,ma tanto più l’io è flessibile tanto più è resiliente. E quanto più sono consapevole della interdipendenza che il mio senso di io ha con le condizioni, fisiche, psichiche, tanto più è consapevole, flessibile e aperto.Come nel racconto del dialogo sul “Carro e il Se” tra Nagasena e il Re Milinda[3] Se allora avessi riconosciuto la tromba d’aria come la morte ma anche come la natura più profonda che emerge? sotto sotto forse ero io che non riuscivo a concepire la morte come un processo di grande trasformazione e crescita ma la vivevo solo come la fine di tutto. Punto. Ma cosa posso sapere io del dopo e della morte? Non posso essere certa di nulla, neanche della fine di tutto, tutto ciò che posso sapere è solo come mi rappresento io ora quel momento e il dopo. Nulla di più. Il resto è un mistero.

Leggendo assieme alcuni momenti, dialoghi, della relazione con Marcella metterò in neretto tutte le parole il cui significato verrà approfondito nelle pagine che seguono.Sono parole chiave dell’approccio basato sulla mindfulness nell’accompagnamento alla morte così come Frank Ostasesky allo Zen Hospice di San Francisco lo ha messo in pratica ed insegnato nelle università americane. Anche al Karuna Hospice Australiano, utilizzano, come allo Zen hospice la mindfulness da più di una ventina d’anni( la mindfulness è parte sostanziale di qualsiasi tradizione sapienziale, specialmente quelle di orientamento o ispirazione Buddhista o di chi,come nel caso degli Hospices nominati, utilizza nella clinica strumenti che fuori dal contesto religioso Buddhista diventano strumenti clinici, universali, non religiosi ma scientifici, utili e di aiuto lì dove c’è sofferenza, per pazienti, operatori, volontari, famigliari di qualsiasi credo o orientamento religioso o ateo)

Anche solo con la definizione più semplice che Jon-Kabat-Zinn utilizza in campo clinico di Mindfulness “attenzione presente e consapevole al momento presente senza giudizio “ è intuitivo che nell’accompagnare alla morte e nel processo nel lutto, mindfulness è anche potere vedere il mondo dell’altro per quello che è in quel momento, senza giudizi e preconcetti. Per “altro” qui intendo soprattutto il paziente che sta morendo, il famigliare, ma anche l’intera equipe( medici, volontari, ecc) che li segue e la rete ( sociale, sanitaria, ecc)nella quale la famiglia e l’equipe sono inserite. Se, come è probabile, noi professionisti( io, in questo caso) non siamo in grado di vedere l’altro(e neppure noi stessi!) per quello che è, meglio esserne almeno consapevoli,o, se non ne siamo capaci, almeno è necessario saperlo, tentare di essere consapevoli degli “occhiali” che indossiamo per guardarlo, e delle mappe che utilizziamo per percorrere il territorio( il mondo dell’altro e della relazione con l’altro oltre che della nostra relazione con il mondo)

Metzinger nel uso libro “ il tunnel dell’io”[4] sostiene che la percezione che abbiamo di noi stessi nel mondo è essa stessa una costruzione e non abbiamo nessuna certezza che esista quel mondo che percepiamo e quell’io. ( Questo stesso argomento richiederebbe un libro intero. ) E’ utile tenerlo presente. E’ utile sapere che il mondo che percepiamo interno ed esterno è una creazione, ci aiuta a rimanere aperti e flessibili a diverse realtà rispetto a quella che percepiamo( coltiva la mente che non sa)

La metafora degli occhiali anche se meno vera è più semplice da capire, rispetto alla visione di Metzinger , la utilizziamo per semplicità : qui la consapevolezza sono occhiali puliti dalle macchie e dai segni, ed eventuali scritte e disegni sulle lenti che ci impediscono di vedere l’altro per quello che è, di vedere il suo mondo invece che il nostro. Le parole che metterò in neretto sono le caratteristiche delle lenti, i colori delle lenti, la definizione e gradazione e anche gli strumenti per costruire le lenti.

Nella descrizione della mente nel Buddismo c’è una mente principale che è la consapevolezza e altre menti “ secondarie” che la accompagnano sempre, può essere l’introspezione o l’amore o la sonnolenza o tante altre, se prendiamo questa mappa della mente come metafora allora le parole in neretto sono le menti secondarie. C’è davvero un limite agli oggetti della consapevolezza o alle qualità( amorevolezza, vicinanza, intimità ecc) che possono accompagnare la consapevolezza? Nominerò quindi su cosa e come la consapevolezza è presente nell’accompagnamento alla morte ma non c’è davvero nessuna pretesa di esaustività in quello che dico o completezza, anzi, vedo qualche rischio: credo sia essenziale che rimaniamo aperti e consapevoli a ciò che il paziente e la situazione richiede e ogni situazione è diversa e ogni momento di ogni situazione è diverso. Le mappe sono utili a patto che non vengano confuse con il territorio e non diventino strumenti di separazione dal paziente e dalla situazione reale. Avere la mappa disegnata sugli occhiali non ci aiuta a vedere meglio. Tenere la mappa attaccata agli occhi neanche: ci aiuterà solo ad inciampare e a cadere quando camminiamo sul territorio. Il territorio è il paziente, la famiglia, la relazione con loro e con tutti gli altri. Per questo nella prima versione di queste pagine avevo fatto parlare i pazienti( puoi trovarla sul sito www.silviabianchi.com , accompagnamento alla morte, diario della figlia e della sorella di Marcella) Perché anche la “non-mappa” di Frank Ostasesky, a cui faccio riferimento nelle pagine finali, usata da ognuno di noi rischia di diventare una mappa:lettura del mondo che si mette tra noi e il paziente. Se proprio abbiamo bisogno di una mappa ricordiamoci di tenerla nello zaino quando percorriamo il territorio e non stampata sulle lenti, possiamo usarla se ci sentiamo persi, oppure cercare di sviluppare in noi, prima di percorrere il territorio, le attitudini e qualità indicate nella mappa attraverso l’esperienza e la pratica meditativa e altri tipi di esperienza diretta.Anche la mappa, come il dito, indica, il Territorio in questo caso. Ma il territorio è altrove.

Marcella

continua da pag 1

….. Dopo mesi di colloqui( basati sulla mindfulness ) con la figlia di Marcella e la sorella… dopo colloqui di supervisione basati sulla mindfulness con il volontario che và a domicilio e con il supervisore delle supervisioni che sento dall’Inghilterra via Skype….vedo Marcella.

Se io non avessi mantenuto “ la mente che non sa” continuato ad esplorare aperta a tutti e a tutto( famigliari, medici, psichiatri, istituzioni, ma anche a continue modifiche nella mia percezione della situazione, non sarei mai arrivata a parlare con Marcella. Se il supervisore della scuola di psicoterapia Karuna dall’inghilterra non fosse stato formato alla stessa apertura e mente che non sa attraverso la mindfulness ho il sospetto non si sarebbe fidato della sua intuizione “ c’è un segreto in quella famiglia!” ha dichiarato ad un tratto. Se il volontario che avevo mandato a domicilio non fosse stato formato alla mindfulness e quindi alla stessa apertura e mente che non sa credo si sarebbe rifiutato di andare in una casa nella quale apparentemente era inutile( “ci sono sempre tante persone nella casa e non mi lasciano mai sola con la paziente” mi disse) così come aveva fatto l’altro volontario. Il mio suggerimento che continuasse ad andare( sorto dopo le intuizioni della volontaria e del supervisore) perché forse ci avevano chiamato per fare da testimoni esterni ad un segreto famigliare ci guidò.La pazienza, l’umiltà, l’accettare e riconoscere tutti e tutto( incluse richieste apparentemente assurde) il continuare ad esplorare curiosi e vicini ai bisogni di tutti senza identificarsi con l’uno o con l’altro e con la prospettiva dell’uno dell’altro o il vissuto dell’uno o dell’altro dei famigliari, dei medici, delle istituzioni( accettando tutte le visioni). Questo ci permise di comprendere che c’era un’altra faccia nella situazione( Come nel disegno della vecchia e della giovane tutti, me inclusa, vedevamo solo una delle due facce , nonostante la realtà fosse sotto gli occhi di tutti nessuno la vedeva. Guardavamo il marito come se fosse un uomo dolce ed impotente, un santo( disse qualcuno) e lei “un mostro cattivo e aggressivo che ha perso il senno”. Solo mantenendo l’apertura, l’ investigazione, continuando a palpare l’elefante( la realtà) in tutte le sue parti, sono arrivata ad intuire le due facce della realtà( quante facce vedi in questo disegno? Ce ne sono due, vedi la vecchia la giovane o entrambe?)

 

vedi il racconto del caso per intero su www.silviabianchi.com, caso clinico Marcella.

Ma è stato solo grazie a Marcella che mi ha guidato a vedere l’altra faccia che infine ne ho avuto la certezza e la visione chiara. E ho potuto agire.

….Quando Marina, stranamente chiede di parlare con me( non parla mai con nessuno e dice “Mah!” qualsiasi cosa le chiedano) vado immediatamente( non aspettare), finisco i colloqui della giornata e alle 21 sono a casa sua( porta tutta te stessa). La settimana prima avevamo fatto un incontro nella palestra di casa loro e c’erano tutti ma lei non era stata avvertita. Avevo quindi segnalato alla sorella e alla figlia che ero rimasta stupita che Marina non ci fosse: era importante farle sapere che se voleva parlarmi io c’ero. Dopo tutto la famiglia poteva avere ora aiuto psicologico gratuito proprio grazie a Marina, se non fosse aperta la sua cartella io non potrei fare colloqui con nessuno di loro. La risposta di Marina non si fa attendere, immediatamente da la sua disponibilità ad un incontro con me.( i tempi di chi sa che sta morendo non sono gli stessi “del mondo dei sani “ )

Entro, la casa è buia, chiedo al marito di essere lasciata sola con Marcella, dopo anni mi riesce senza offendere nessuno o insospettire o creare tensione: lo racconto come un problema mio( porta tutto te stesso, rimani umile). Dico a lei che è importante che sappia che io ho la privacy e che quello che mi dirà non verrà riferito al marito o ad altri della famiglia.Lei mi chiede di spegnere una luce: le dà fastidio agli occhi, la spengo( accettazione):sta ad occhi chiusi( il mondo attorno a lei gira e le viene da vomitare se apre gli occhi, mi dirà poi. )Stiamo assieme nel buio della stanza( cammina nel mondo del paziente assieme a lui). Marina è molto grassa ora, con i capelli tagliati cortissimi e ha sempre una pallina in mano di gomma che di tanto in tanto schiaccia, sempre con la stessa mano. E’ su una poltrona semi-sdraiata. Dove lei sta notte e giorno, da mesi. Si rifiuta infatti di alzarsi anche se le hanno spiegato il pericolo di non fare movimento. ( lo accetto anche se ho la tentazione di non farlo ma so chi mi si chiuderebbero le porte del mondo di Marina, come è successo alla sorella e alla figlia)Sarà questa infatti la causa della sua morte pare( dura accettare che forse Marina vuole morire, ma lo faccio). Nella stanza c’è cattivo odore. Dopo un pò di tempo in silenzio tento qualche approccio, lei risponde “ Mah”! a quasi tutto. Un muro di “ Mah!” e niente altro. Per almeno mezz’ora( o così a me è sembrato un tempo infinito per me difficilissimo da sostenere più volte ho sentito l’istinto di fuggire, l’ho tenuto nel campo della mia consapevolezza)ho ascoltato, riconosciuto, accettato, investigato non indentificandomi ( RAIN

) tutto ciò che è passato nel mio campo di consapevolezza nel mio mondo interno ed esterno, come in una sessione di meditazione, senza perdere il contatto con lei se non a tratti . Ascolto il respiro e non solo , rimango nella consapevolezza e lì riposo, mi acquieto ( impara a riposare nel pieno dell’attività) Mi aiuta a rimanere qui l’ipotesi che avevamo fatto con il volontario e il supervisore, le comprensioni che avevamo avuto assieme. Mi aiuta il pensiero che Marina mi ha chiamato, il pensiero “c’è bisogno di un testimone qui che veda il segreto di famiglia”, “rimaniamo aperti a quello che c’è.” Ho iniziato a stare in ascolto( dono dell’ascolto) del suo tono di voce, della camera dove vive, di quello che mi dice il suo corpo e il tono con il quale dice “Mah!” Come risuona il “ Mah!” in me (dono della consapevolezza, sono presente attraverso investigazione e riconoscimento accettazione, non identificazione di sensazioni , pensieri emozioni in me e del mondo esterno: suoni, colori, forme, ecc)e nella stanza. Come se fosse una musica, ascolto, sono presente a quello che c’è. E alle mie reazioni a questo. Mi accorgo che il suo “ Mah!” mi piace, mi fà sorridere(riconoscimento dei movimenti di repulsione e attrazione in me), risuona con la parte di me che sa, sente che in fondo non c’è certezza su nulla, che siamo immersi nel mistero( mistery) e che forse la cosa più saggia da dire è “ Non so” come diceva Cartesio. Quel “ Mah!” su ogni cosa detta e fatta mi risuona come estremamente saggio e acuto( coltiva la mente che non sa). E trasforma la tragedia in commedia. Mi fa sorridere. Le dico quello che sto sentendo e pensando( porta tutto te stesso nell’esperienza), cosa richiama in me il suo “Mah!” . Cosa fa risuonare( sensazione di piacere, pensiero del “ Non so” di Cartesio e il senso della vita, il sorriso)( relazione come servizio: condivisione,e non aiuto o interpretazione o distacco professionale)

Lei quindi si accende. O così a me appare. Sento un sottofondo vivace nella sua voce pure dura, forte che può sembrare aggressiva ma che a me sembra solo determinata, lucida come l’alluminio, piena di disperazione e rabbia, ma chiara. Di chi vuole fare sentire che c’è. A me arriva come un getto d’acqua che esce dopo avere rotto un muro e essersi finalmente fatto breccia,a causa della portata e intensità dell’acqua e il piccolo buco dal quale passa, arriva con una forza che al tocco fà male, ma è solo l’intensità, la portata e la forza che rende il contatto duro,il getto violento, ma l’acqua è pura e limpida. Finalmente Marina, la persona, ciò che sente e prova, chiusi e nascosti da troppo tempo dietro a un muro, Marina murata dentro se stessa, ce la fà a trovare un passaggio, rompe il muro ed esce. Così pare a me. Mi dice che tanto non ha nessun senso rispondere altro oltre al “Mah!” Anzi è pericoloso. Mi racconta che se suo marito le chiede “ vuoi l’acqua o la Coca-Cola?” lei dice “dammi quello che vuoi tanto poi fai come vuoi tu. Perché me lo chiedi?” “ Lui insiste” , le dice che non si esprime e non dice quello che vuole, che non capisce perché lo fa, insiste a tal punto che per uscire dall’accusa Marina dice cosa vuole “ acqua”…a quel punto suo marito le da la Coca-Cola. ( questo mi viene confermato anche dalla volontaria che và a casa e mi dice “ ma cosa le chiedono a fare le cose che vuole tanto poi fanno il contrario!”) Questo accade sempre su tutte le cose, piccole e grandi. Immaginate cosa può volere dire per una donna che è passata da essere assessore comunale, architetto, attiva nel mondo, essere allettata senza più nessuna scelta e le uniche scelte che può fare vengono manipolate in questo modo, subiscono questa violenza psicologica.

E quindi, dice Marina “io dico Mah! A qualsiasi cosa”

Le riconosco immediatamente la sofferenza della situazione. Le dico che non conosco suo marito ma che per quanto impossibile possa sembrare ai più ci sono persone che fanno così. Mi accorgo che mi viene in mente il libro “Molestie Morali”( riconoscimento dei miei pensieri). Le rimando che deve essere molto doloroso essere in quelle condizioni e le pochissimi scelte che si possono ancora fare sono rese impossibili e anzi diventano oggetto di manipolazione. Le rimando che forse io impazzirei (porta nella esperienza tutto te stesso, relazione come servizio e condivisione non suggerimenti su come affrontare la situazione, accettazione dell’impotenza e del limite), una situazione così a me farebbe molto male. Lei mi dice,con un impeto che io sento vitale, freddo ma sentito “ A me no! A me non lo fa più! IO non sento più nulla! A me non me ne frega più di nulla!E’ così da sempre, lui lo ha sempre fatto!   Prima però me ne fregavo, dopo i primi anni di matrimonio avevo imparato a fare quello che volevo. Me ne fregavo di quello che lui diceva o sentiva. Ero diventata molto indipendente, facevo molte cose fuori casa, “Solo che ora era ferma qui, diceva, su una poltrona e dipendeva da lui non poteva più evitarlo. Ma era tanto tempo che non sentiva più nulla dentro di se, che non aveva emozioni. … “Forse avrei dovuto lasciarlo tanti anni fa, ho sbagliato a non lasciarlo”, conclude( io ascolto, accetto, riconosco, condivido, mi metto al servizio. Non risolvo,consiglio, interpreto, suggerisco. Sto con quello che c’è)

Una delle volte successive siamo sempre al buio, sempre più vicino all’estate e la stanza puzza sempre di più.( accetto) Penso “ il marito l’ha lasciata in questo stato” poi mi accorgo del giudizio( riconoscimento) che mi si è creato sul marito e quasi per rimediare mi accorgo che sorge un altro pensiero in me “ Forse lei non si è voluta cambiare” Un’altro pensiero “ Non so”. e rimango in questo “ Non so cartesiano”( coltiva la mente che non sa) che mi permette di stare senza agire.Sento che mi è difficile entrare nella stanza( riconoscimento del movimento di repulsione e accettazione dello stesso: quella parte di me che dice “ questo odore non mi piace, è troppo forte, non posso). Noto che il mio corpo vorrebbe uscire dalla stanza( ascolto e riconoscimento delle sensazioni del corpo), accetto quello che c’è dentro e fuori, rimango presente a questo senza agirlo, senza giudizio per me e per lei e la situazione, inizio anche a sentire il calore del mio cuore che mi invita a rimanere( compassione: sentire il dolore dell’altro ) a comprendere la sofferenza di Marina. Il desiderio di condividere con lei quella sofferenza e non lasciarla sola in quella stanza come fanno molti in quella casa( il marito e le badanti stanno quasi sempre nell’altra stanza, il figlio e la fidanzata del figlio nella loro stanza) Sento il mio corpo che si sta avvicinando a Marina. Il pensiero più o meno dice questo” Certo che Marina è proprio lasciata in stato di abbandono” ( consapevolezza sui pensieri)lo sguardo, il vedere, và alla camicia da notte alzata fino al punto nel quale si vede l’intimo. Ne sono consapevole. Mi accorgo allo stesso tempo che provo imbarazzo( consapevolezza delle emozioni) per lei e dispiacere per la sua solitudine.Marina inizia a parlare,sa( riconosce) di non avere più emozioni. Me ne parla oggi. Sa che non sente più dolore, non gliene frega più nulla di nulla, mi aveva detto.Non c’è nulla che la rende felice o triste( riconosce). La accetto cos’ì com’è. Le rimando che la trovo molto intelligente e simpatica, sono cose vere( porta tutta te stessa)Mi accorgo che in quel momento ricordo anche una frase della sorella che mi racconta quanto Marina è cambiata negli ultimi anni, non aveva più energia e entusiasmo per nulla neppure per Nicola,il figlio della sorella portatore di handicaap, che Marina adorava e per il quale aveva fatto tantissimo. Comprendo che come molte donne in situazione di continuo stress per manipolazioni e attacchi anche Marina forse era caduta in depressione. Mi dirà Marina quella sera,tra un “Mah!” e l’altro, e lunghissime pause di silenzio in mezzo che io rispetto :-   solo non capisce una cosa… come fanno tutti..( si riferisce a chi vive con lei e ai suoi famigliari). C’è qualche cosa che non capisco e non mi convince.” dice. Lo chiama “ complotto”.- Deve esserci per forza, dice lei, altrimenti com’è possibile che tutti siano così indifferenti ed infastiditi? Se lei avesse vicino un famigliare ma anche un estraneo che sta male e sta morendo, mi dice, proverebbe almeno tenerezza e cura se non dispiacere e disperazione. Non le torna che attorno a lei ci sia solo fastidio e insofferenza.

In effetti la volontaria mi dirà e lo confermeranno anche i colloqui con la sorella e la figlia che il marito le dice spesso “ morirai!” un giorno finalmente morirai! “Chiede, davanti a Marina, al figlio di nascondergli i fucili se no l’ammazza lui con le sue stesse mani, mi racconta poi la sorella quando io intuisco la situazione.

Mi racconta poi della sua idea del complotto sul cibo e del veleno che c’è nel cibo, la accolgo( accogli tutto quello che c’è ,accetta), ma sarà anche disposta ad accogliere la possibilità che le suggerisco come una delle ipotesi possibili cioè che lo stranissimo sapore che lei sente in bocca ogni volta che mangia e il bruciore possano dipendere dalla alterazione del tumore sul cervello. Le chiedo cosa le hanno detto i medici e anche io ho chiesto a molti medici ma non ho avuto una risposta certa( investiga).

Quando entro nella stanza qualche volta dopo il marito mi accoglie tentando di spiegarmi quanto lui non ne può più quanto Marina è cattiva, oggi ha tirato una tenda così forte che lo specchio sopra la sua testa si è staccato dal soffitto cadendo su Marina, rompendosi in tanti pezzi, per fortuna nessuno si è fatto male. ( la accetto senza replicare e ascolto la risonanza in me della cosa)Quando entro nella stanza chiedo( investiga) a Marina e lei mi fa solo domande: -perché quella tenda che è sempre da 20 anni tenuta in fondo alla stanza oggi il marito gliel’ha messa vicinissima all’unica mano che lei può muovere E perché lui proprio quel giorno ha fatto tutto, ma proprio tutto per esasperarla fino a farla diventare furiosa, lei ha tirato la tenda e lo specchio è caduto. “Lo chieda a tutti gli altri famigliari,” mi dice, “dove è stata quella tenda per 20 anni“ i famigliari confermano che in 20 anni la tenda è sempre stata nel fondo della stanza e non nella posizione nella quale era quel giorno.

-Chi l’ha messa lì la tenda le chiedo? -Marina con la sua voce sicura e tagliente : “Secondo lei?! “ mi risponde. Il modo e il tono delle domande di Marina mi fà sentire in sospensione per un attimo nell’aria e lì trovo sia le risposte che la sua paura e impossibilità di dirmi apertamente e con le sue parole la verità . Come se tutto questo fosse ancora nella stanza. Il mio occhio cade, sul braccio di Marina :mi accorgo che Marina ha le braccia piene di lividi e le chiedo spiegazioni. Mi dice “ lui dice che è la pelle sensibile”. Io le dico “ ma lei che mi dice ?” e lei risponde di nuovo “ Secondo lei?! “sento il tono di Marina un pò ironico, con una rabbia velata che mi indica con fare provocatorio, la realtà di quello che è accaduto. Vedo l’occhio nero. Sento dispiacere e rabbia. Le chiedo cosa è accaduto. Lei mi dice che le è arrivata una bottiglia piena nell’occhio. Le chiedo com’è accaduto “ lei dice di nuovo “ Secondo lei!?”

Ho capito. Esco. Dopo avere scambiato ancora qualche parola con Marina vado nella palestra dove per fortuna c’è stata una riunione famigliare. C’è anche il marito. Chiedo a tutti ma guardando negli occhi il marito “ Come và? ” Il marito dice “ insomma”. Lo guardo negli occhi e con tutta la comprensione che posso avere umanamente verso di lui gli dico “ Lei non ce la fà più”. “ NO non ce la faccio più” mi dice. Gli dico “ Prima che succeda qualche cosa di grave meglio andare un po’ nella casa di montagna a riposarsi, meglio farlo perché se poi succede qualcosa di molto grave è un grosso danno per tutti” Mi stupisco dell’amorevolezza con la quale mi escono queste parole, non sono rabbiose o giudicanti, in quel momento sento e so che è per evitare tragedie a tutti e che tutti sono nella tragedia anche ora. C’è comprensione, accettazione. Pure nel riconoscimento della gravità della cosa. Forse lui lo sente, capisce, mi dice “ eh si, meglio che io vada qualche giorno in montagna, in effetti oggi le ho tirato una bottiglia piena nell’occhio “Il giorno dopo lui andrà in montagna e io dal medico di base e dalla assistente sociale. Dico che è lui che mi ha detto. Parte la denuncia. Prima avevo chiesto a Marina se era d’accordo che io facessi questi passaggi e lei mi aveva detto di si. La sorella mi dirà il giorno dopo che ha chiesto a Marina se le dispiace che suo marito sia via per un po’ “ Per Niente! “ risponde lei. Quando passo da Marina prima di andare dall’assistente sociale chiedo a Marina se si fida di sua figlia e sua sorella, anche se inizialmente le aveva inserite “nel complotto” risponde di si( perdono?), le dico allora che se non riesco a ripassare le farò raccontare dalla figlia e dalla sorella.Marina morirà il giorno dopo. La psichiatria chiamerà per prendere in carico padre e figlio maschio( visto che io seguivo la figlia, Marina e la sorella) il giorno dopo la morte di Marina, troppo tardi( non aspettare), loro non inizieranno mai anche perchè la psichiatria toglierà l’attivazione appena saprà che la paziente è morta( succede spesso che i tempi delle istituzioni non coincidano con quelli di questa malattia). Il medico di base qualche giorno prima non aveva potuto fare l’attivazione per fare entrare Marina nell’hospice “perché prendono persone che hanno solo 6 mesi di vita e Marina avrà 10 anni ancora” diceva. Ed io ascoltando i medici stavo perdendo il rapporto diretto con Marina, la sua fiducia, l’avevo una volta incoraggiata a vivere, mi diceva che i medici e la famiglia le dicevano cose non vere: lei avrebbe potuto vivere 10 anni, lei sapeva che non era vero e la morte era vicina. Ho ascoltato, capivo cosa mi diceva,ma le ho assicurato che nel suo caso era vero, i medici dicevano la verità. Lei si è chiusa. Ritornando a trattare me come tutti gli altri, ad ogni tentativo di comunicazione rispondeva “Mah!” o stava in silenzio. I “Mah!” e il silenzio mi arrivavano come un muro invalicabile. MI aveva messo fuori, di nuovo, come con tutti gli altri. Non era più possibile raggiungerla, lo sentivo chiaro.Sono andata a cercarmi informazioni sulla sua malattia su internet. Ho letto che questo è un tumore veloce( nei bambini, negli adulti non si sa non ci sono ancora statistiche) Ho parlato e riparlato con i medici e uno dei medici della associazione mi ha detto che in effetti Marina così immobile sulla sua poltrona non poteva avere vita lunga(morirà di questo infatti pare). Sono tornata da lei, le ho chiesto scusa per l’errore che avevo fatto( porta tutto te stesso), aveva ragione lei, le avevo mentito ma in buona fede. Credevo davvero a quello che le avevo detto ma sbagliavo.Piano piano ha ricominciato a parlarmi raccontandomi della paura di morire. Poche parole, come al solito chiare, decise, taglienti, determinate( ecco alcune sue frasi“Come si fa a non averla?! Lei non l’avrebbe?!” “ Si certo, quella paura l’ho anche io, non c’è dubbio e forte” rispondo io) Le ho rimandato che lei mi piaceva come persona e che la trovavo estremamente intelligente e che provavo per lei una forte simpatia. Non c’è spazio per dire nulla di più. Marina rimane dentro il mistero, non intende esplorarlo( come invece altri pazienti hanno provato a fare) ma mi voleva comunicare la paura.

A cosa è servito sciogliere il nodo di questo segreto di famiglia se Marina è morta? E’ servito a Marina sentirsi riconosciuta nella sua storia? Uscire all’ultimo giorno da una co-dipendenza che si era trascinata tutta la vita, prima con padre e poi il marito ? Non lo sapremo maiChe significato possiamo dare al fatto che aveva riquistato la fiducia nella figlia e nella sorella. Frank Ostasesky nel suo libro ma anche Lama Zopa Rimpoche nel libro “ Guarigione definitiva” scrivono della guarigione definitiva appunto che non è del corpo ma è la possibilità di ritrovare una propria interezza e unità anche nel processo di trasformazione della morte( che non è visto come un fallimento ma come una crescita e trasformazione che và aiutata, vista , permessa, incoraggiata se e quando è possibile) . Ostaseky parla di un passaggio possibile solo se il Se è contenuto.

Sul piano di chi rimane, la figlia e la sorella, questo processo sembra averle aiutate: la figlia nella sua elaborazione del lutto ristruttura completamente la sua vita e quella di tutta la famiglia attorno a se che è virata da relazioni di odio a relazioni di amore, da indifferenza ad affetto e aiuto reciproco e dall’idea profonda che la vita non vale la pena di essere vissuta meglio lasciarsi morire( come ha fatto Marina) ad un sentire la preziosità e il valore della vita e la responsabilità di viverla anche per onorare la sofferenza della madre, per ciò che la madre non ha vissuto.. Lascia una relazione di co-dipendenza con il fidanzato che ha da 17 anni che la tradisce, le mente è indifferente a lei e alla sua sofferenza( come il padre con la madre) relazione che le fà sentire che la vita non ha senso e la voglia di morire e inizia una relazione con un uomo con il quale si sposerà dalla quale si sente amata, ascoltata protetta, e tanti altri passaggi che puoi leggere sul suo diario che trovi www.silviabianchi.com Sul diario sarà facile anche percepire come la figlia cambia il rapporto con il suo “ io- Se” attraverso la mindfulness dopo il corso MBSR sulla mindfulness di 8 settimane. Anche il diario della sorella di Marcella e i suoi cambiamenti attraverso la mindfulness nel processo del lutto. E’ anche possibile vedere i risultati dei test prima e dopo MBSR( corso di otto settimane basato sulla mindfulness fatto con 12 persone tra famigliari e pazienti).

LA RELAZIONE COME SERVIZIO, come la mindfuless trasforma la Relazione

Come dice Frank Ostasesky morire non è un fatto medico ma è sopratutto questione di relazione: con se stessi, con gli altri, con il mondo,il senso della vita e il mistero. Comprendere questo e la consapevolezza significa cambiare anche l’approccio alla relazione clinica con il paziente che non è più una relazione di aiuto ma si trasforma in servizio. Nell’aiuto,scrive Ostasesky nel suo libro, riportando le parole di Rachel Remen,autrice del libro “Kitchen Table Wisdom”, è necessario che ci sia un disequilibrio, una disegualianza,l’aiuto non prevede un rapporto alla pari. “Quando si aiuta si usa la propria forza a vantaggio di qualcun’altro che ne ha meno…La disegualianza è palpabile….Ponedoci in una relazione di aiuto possiamo inavvertitamente sottrarre all’altro più di quanto gli diamo, sottraendogli autostima e dignità. Ma per servire dobbiamo mettere in gioco qualcosa di più della nostra forza, dobbiamo mettere il gioco la totalità di noi stessi.Attingere all’intera gamma delle nostre esperienze, ai nostri lati oscuri. La nostra interezza serve l’interezza dell’altro,l’interezza della vita.. l’aiuto crea debito, l’altro sente di doverci qualche cosa, il servizio al contrario è reciproco: quando aiuto provo soddisfazione, quando servo provo gratitudine. Servire è inoltre diverso da provvedere. Quando cerco di provvedere a qualcuno, vedo nell’altro qualcosa che non và. E’ un giudizio implicito che mi separa dall’altro e crea una distanza. Direi quindi che fondamentalmente, aiutare,provvedere, ci sembra che abbia qualcosa che non và. Quando aiutiamo la vita ci appare debole. Quando cerchiamo di provvedere,ci sembra che abbia qualcosa che non và. Ma quando serviamo, la vita ci appare completa “

“ se mi dedico veramente ad una persona che sta per morire in quel momento mi dedico anche a me stesso”dice Frank: non facciamo altro che camminare insieme, mano nella mano,attraverso la nascita e la morte” E’ un approccio all’assistenza radicalmente diverso, in cui si riconosce esplicitamente il dono che chi sta per morire offre a chi si prende cura di lui.”

VIGNETTA ZEN

Divide il Servizio in“ Doni”:il dono del contatto, la possibilità di toccare l’altro con presenza, attenzione, amorevolezza ,il dono dell’ascolto, di essere presenti a ciò che c’è ,all’ascolto di se, dell’altro alla realtà e non fuggire altrove,il dono della consapevolezza che suddivide in: il significato,il perdono

La creazione di un ambiente contenitivo:la mindfulness come contenitore ma non solo, la consapevolezza ovunque ce ne sia bisogno

in che modo dare un ambiente contenitivo al paziente che sta morendo e ai famigliari? in qualsiasi modo, e su tutti i livelli di bisogni: iniziando dall’aiuto alla soluzione dei bisogni primari. Al Karuna Hospice in Australia,nel 1999,facevo la tesi da loro,già utilizzavano,la mindfulness, la presenza empatica, la relazione come servizio, e tutto ciò che segue,e l’utilizzo di tante tecniche meditative per la formazione degli operatori o per pazienti e i famigliari che lo richiedevano. Il Karuna era caratterizzato da un eccellente livello di assistenza spirituale(qui in Italia ancora inimmaginabile) Eppure era chiaro a tutti gli operatori( counselor, psicologi, psicoterapeuti, medici, infermieri, assistente sociale) la scala dei bisogni di Maslow per cui quando intervistai l’assistente sociale,mi disse che non c’era modo di occuparsi dei bisogni spirituali, o di autostima legati, o al significato della vita del paziente, o alle relazione affettive, se prima non erano state aiutate le famiglia ad avere una stabilità economica(con sussidi di invalidità ecc), soluzione di bisogni legati alla sopravvivenza, all’igene , al dolore fisico e alla gestione medica ed infermieristica della malattia. Essere presenti e consapevoli significa anche esserlo nella relazione su tutti questi aspetti, tutti sono necessari per un ambiente contenitivo, così per i neonati come per i morenti. Se la persona si sente contenuta con presenza e attenzione questo permette una flessibilità del Se o dell’io Senza il contenimento il Se è più rigido si attacca a tutte le sicurezze e abitudini passate, come facciamo quando abbiamo paura. Infatti Lama Zopa, Maestro Tibetano fondatore del Karuna Hospice, disse che il karuna hospice andava organizzato e fondato per permettere alle persone di morire con meno paura. E anche l’accudimento e l’ambiente contenitivo aiutano in questo. Dice Frank nel seminario di Maggio 2012 sull’argomento “

“il bambino tenuto dalla madre, sente fiducia nel mondo, si sente amato, si sente sostenuto e quindi può anche riposare. Quando non ci sentiamo contenuti tendiamo a contenere nel senso di aggrapparci ( al senso di Se ecc, a quello che è famigliare, anche se l’abitudine a cui ci aggrappiamo è distruttiva) perchè non sappiamo cosa viene dopo, l’aggrapparci ci da una sicurezza temporanea.

Nel processo del morire vediamo che se non c’è un senso di contenimento il paziente di aggrapperà alle abitudini. Ambiente di contenimento, infermiere medici ecc e nella pratica meditativa è la consapevolezza stessa che diventa un ambiente di contenimento, noi possiamo con la nostra presenza consapevole aiutare questo processo.

Se il bambino è ben contenuto sviluppa la capacità e la fiducia di andare al di là dei vincoli precedenti, di fare cose nuove, di prendersi dei rischi.La stessa cosa avviene nel momento della morte: il contenimento permette al morente di avventurarsi al di là di quelle che sono le identità conosciute. L’ambiente di contenimento evoca il senso di fiducia e quindi sviluppa la capacità del paziente di andare al di là dei limiti precedenti. Emergono qualità ed esperienze nuove, un nuovo SE come se si aprisse un tappo. Emerge un certo tipo di sofferenza e di dolore o di materiale inconscio archetipico, simbolico o misterioso, o la bellezza, o il suo contrario, e tutto questo solo per la presenza di un ambiente di contenimento. Come può un ambiente di contenimento permettere al senso del Se di attenuarsi, o il senso di identificazione e possesso? lo vediamo quando siamo in meditazione quando la consapevolezza da un contenimento e permette di riposare e stare nella fiducia e questo è un valore aggiuntivo, da qui l’importanza di fare conoscere “la cura palliativa attenta e consapevole”. La cura consapevole e amorevole non è solo una cosa che sarebbe bello avere è una parte integrante del piano complessivo di cura. “

E’ ciò che permette la guarigione definitiva che non è la guarigione del corpo . “La guarigione è possibile anche se la malattia è incurabile:guarigione come risanamento dove per sano si intende completo,non frammentato. “Ostasesky scrive di questo nel suo libro e porta alcuni esempi e anche Lama Zopa nel suo libro “ Guarigione definitiva” scrive estesamente di questo.

Presenza e consapevolezza al processo del perdono:

Dice Frank, vedo che chi riesce a perdonare prima di morire si sente più libero e muore più tranquillo, leggero.Nell’intervista che feci nel 1999 alla monaca allora direttrice del Karuna hospice il perdono era un passaggio importante dell’accompagnamento alla morte, suggeriva vari modi di perdono, parlare direttamente alle persone o se si teme reazioni strane scrivere una lettera, fare meditazioni nelle quali si immagina di inviare luce bianca alla persona da perdonare, racconta di un ragazzo che pur trovando la cosa assurda dopo averla fatta per un periodo si ritrova ad avere perdonato spontaneamente le persone alle quali la mandava. E la leggerezza che provava, come volo di colombe bianche, diceva, immagine che gli era apparsa durante la fase di perdono e che l’aveva accompagnato anche durante la morte. Frank nel suo libro dedica un intero capitolo al perdono, all’importanza di poterlo fare dopo essersi arrabbiati, farlo in modo autentico e non artificiale, aiuta a poter morire.Ma per potere accompagnare al perdono qualcuno è necessario averlo potuto fare nelle nostre vite in modo autentico e profondo, averne esperienza,sapere cosa è e il senso di libertà che segue. La libertà dalla rabbia, dalla chiusura dalla sfiducia,e la mindfulness aiuta in questo.

Essere presenti alla ricerca di significato con consapevolezza

Al Karuna Hospice per quanto riguarda questa fase essenziale dell’accompagnamento facevano riferimento a Victor Frank( fondatore della logoterapia: l’equilibrio psichico dipende dalla percezione significativa del sé e del proprio vissuto.)

Trovare un significato alla propria vita tramite il raccontarla a qualcun’altro può aiutare a lasciare andare e morire con la consapevolezza del perchè abbiamo vissuto, qual’è la vita con la V maiuscola che si è vissuto, dice Gabriel Monson psicoterapeuta ad impostazione psicosintetica che intervistai al Karuna nel ‘99

“ un uomo dice -ho sprecato tutta la mia vita a lavorare – poi raccontandolo alla psicoterapeuta scopre che ciò che lo aveva spinto a lavorare così tanto era l’amore per il suoi figli e il desiderio di dare loro una vita migliore della sua, scopre il valore che lo ha guidato. La vita con la “V” maiuscola.Una cosa è morire e un’altra è morire con la sensazione che la propria vita non ha avuto senso.Anche Frank Ostasesky nei suoi seminari e nel suo libro parla della fase del “ significato” dell’importanza di essere presenti e permettere alle persone di raccontarsi ancora e ancora, di raccontare tutta la loro vita, anche più volte se ne hanno bisogno fino al momento nel quale avendo trovato il senso non sono più nel campo del significato ma nel campo del Mistero. Nel campo di ciò che non può essere ne risolto ne capito.

Essere presenti al mistero con consapevolezza

Riuscire a stare con il mondo del mistero dell’altra persona è essenziale. Spesso ci sentiamo impotenti e falliti se non riconosciamo che non c’è una soluzione da trovare ma che siamo entrati nella fase del Mistero, delle domande senza risposta, di ciò che non ha soluzione, dice Ostasesky. Al Karuna gli assistenti spirituali ( buddisti, cristiani o di qualsiasi altra religione, a seconda di ciò che sceglie il paziente) accompagnavano il morente nella sua definizione di “al di là” qualunque essa fosse( il nulla, il paradiso cristiano, le diverse vite del buddismo ecc) attraverso le metafore che emergevano dalll’inconscio del paziente. Puoi vedere su www.silviabianchi.com.

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