La traduzione del termine inglese “mindfulness” è “consapevolezza” o “attenzione”. Ognuno di noi sa per esperienza cosa significa essere consapevoli. Ad esempio, chi legge in questo momento è probabilmente consapevole dell’azione di leggere, delle parole che legge, del significato di ciò che legge, etc. Allo stesso tempo abbiamo momenti di perdita di consapevolezza, per distrazione. Ad esempio mentre leggo e perdo il filo del discorso, oppure quando dormo, o quando svengo, o in anestesia totale. Come diceva un maestro tibetano, abbiamo anche esperienza di quando, ad esempio, in preda alla “cieca” rabbia o gelosia o attaccamento si “spegne la luce”, “c’è il buio”. Agiamo inconsapevolmente, magari uccidiamo anche, e dopo non abbiamo neppure il ricordo di ciò che è accaduto. Rapimento dell’amigdala, scrive Daniel Goleman nel libro “Intelligenza Emotiva”; parti antiche del cervello si attivano e oscurano la coscienza, che è una prerogativa delle parti del nostro cervello evolutivamente più recenti, come la neo-corteccia. Ciò nonostante, anche se l’attenzione, la presenza, la consapevolezza sono esperienze comuni a tutti – e quindi da questo punto di vista non si può dire che ci sia una “nascita della mindfulness” – è possibile parlare di “origine” dei training come di un insieme di addestramenti per stabilizzarla, intensificarla e poterla utilizzare come sentiero per uscire dalla sofferenza, come avviene nella scuola del buddismo Vipassana, che il prof. Vago[1] chiama «La mindfulness con 2500 anni di storia» o anche come strumento per la riduzione dello stress, come avviene nell’MBSR di Kabat-Zinn, chiamata da Vago «La mindfulness con 25 anni di storia», dove viene definita semplicemente come “attenzione/consapevolezza al presente momento per momento non giudicante e intenzionale” (va detto, a onore del vero, che alcune tradizioni più antiche non sarebbero del tutto d’accordo con questa definizione). Poiché la mindfulness è prima di tutto esperienza, ossia un sentiero da percorrere da parte di ognuno con tutto se stesso, corpo, cuore e mente, quanto è davvero possibile scriverne o parlarne? Il linguaggio, strumento eccelso di rappresentazione astratta della realtà, è sicuramente utile, ma non può sostituire l’esperienza. Consultare la mappa di un sentiero non è come percorrere il sentiero di persona. La mia esperienza della cioccolata (ad es., di quella che sto mangiando ora), soprattutto se non l’ho mai assaggiata prima, non è come la descrizione che può farmene qualcuno; e certamente non è possibile intuire il gusto della cioccolata attraverso le parole. Così come la lettura della mappa di un sentiero è diversa dall’esperienza unica e personale che io posso vivere su quel sentiero, come ad esempio quello che io ho percorso questa mattina; ho ancora nella mia memoria le forme e i colori splendidi e variegati dei fiori, il loro movimento leggero mentre il vento li accarezzava, il canto meravigliosamente assordante degli uccellini, le tante farfalle rosa che si muovevano veloci e leggere sopra al fango, mentre cercavo il mio gatto nero che proprio ieri, uscito per la prima volta dalla nuova casa, si è perso e non è ancora tornato. Quel contrasto dentro di me, tra la tristezza e la preoccupazione per il gatto, e la percezione della gioia infinita per la bellezza irripetibile di quell’istante, non ha nulla in comune con il disegno del sentiero sulla mappa. Ciononostante, tutti conosciamo l’utilità che le rappresentazioni e le mappe del mondo hanno per orientarci e per avvicinarci all’esperienza: a volte è proprio avere visto o studiato una mappa del sentiero, o avere ascoltato qualcuno che lo descrive, che ci porta incuriositi a percorrerlo. Quindi, forse vale la pena che io tenti almeno di fare qualche sforzo per tracciare la mappa: scrivere qui qualche parola sulla mindfulness e la meditazione, conoscendone i limiti, avendo chiara la distinzione tra lo scrivere di mindfulness e il vivere la mindfulness (cioè farne esperienza). Se cerco di mangiare il disegno di una mela non sarà molto gustoso! Ma il disegno forse mi aiuta a riconoscerla quando la vedo, a darmi la fiducia per farne esperienza mangiandola. Infatti, il dito che indica la luna non è la luna: Dzongsar Khientse Rimpoche dice che anche i migliori trattati buddisti sulla consapevolezza sono solo il dito che ti indica dove guardare (es., verso la luna nella metafora, ossia verso la realizzazione della consapevolezza piena, dell’illuminazione). Il rischio che si tramandi il dito invece che l’esperienza della luna è forte, anche quando il dito indica nella giusta direzione (e non è cosa facile). Ci tengo che sia chiara questa distinzione e quindi siano chiari i limiti di questo mio scritto. Si narra nei testi buddisti che lo stesso Buddha Śākyamuni, più di 2500 anni fa, quando ebbe l’esperienza di piena consapevolezza (chiamata nei testi buddisti “illuminazione” o “risveglio”, da cui l’appellativo di “Buddha”, letteralmente “il risvegliato”), decise che non ne avrebbe parlato con nessuno perché lo riteneva inutile: nessuno avrebbe compreso. Solo l’insistenza di tanti, la supplica di condividere i suoi insegnamenti per aiutare chi soffre, alla fine, convinse il Buddha, che fece un tentativo basato sulla compassione per gli esseri senzienti. Non avendo io la sua esperienza, posso solo sperare che scrivere sia più utile che stare in silenzio. Nel contesto originale della mindfulness con 2500 anni di storia, gli obiettivi dei training di consapevolezza erano più profondi che non la sola gestione dello stress o la salute mentale; e i sentieri delineati per uscire in modo definitivo dalla sofferenza più numerosi, articolati e complessi. La meditazione Vipassana e i “quattro piazzamenti ravvicinati della consapevolezza” sono presenti in tutte le scuole buddiste (es., Hīnayāna, Mahāyāna, Tantrayāna, Dzochen), come pure nella tradizione cristiana (es., i Padri del Deserto, Maria Teresa D’Avila) e in molte altre religioni (es., sufismo, scuole induiste) e filosofie (es., antichi filosofi occidentali), dove si suggerivano esercizi e training di consapevolezza con finalità solo parzialmente simili a quelle della mindfulness “attuale”. Ciononostante, lo stesso Kabat-Zinn (1996) cita due sūtra[2] come una delle risorse principali del suo lavoro, dove si leggono le parole del Buddha che incoraggia a praticare e sviluppare training di consapevolezza molto simili a quelli che J. Kabat Zinn propose al CFM: (1) il Mahāsatipaṭṭhāna Sutta o “Great sūtra on mindfulness, esprimibile come “Il grande discorso sui fondamenti della presenza mentale” (Gnoli, 2001), e (2) l’Anapanasati Sutta o Sūtra on mindfulness of breathing, ossia il sūtra della consapevolezza del respiro. La consapevolezza nei sūtra viene portata sul corpo, sul respiro, sulle emozioni e sui pensieri, ma non solo. Anche dove l’oggetto di consapevolezza è lo stesso, ad es. il corpo, l’esplorazione della consapevolezza è più articolata nel sūtra. Nell’MBSR di Kabat-Zinn si esplorano le sensazioni del corpo nel qui ed ora, mentre il Buddha nei sūtra incoraggia a portare la consapevolezza anche sul corpo che invecchia, si ammala, muore, si disintegra e si disperde, costringendo il lettore ad insight sulla transitorietà di tutto ed invitando a constatare la transitorietà addirittura dell’identificazione con l’Io e con il corpo, andando a mettere in luce la fondamentale illusorietà di una delle convinzioni più forti e meno ordinariamente messe in discussione, forse, da noi esseri umani. Oltre che alla contemplazione del corpo, nel sūtra il Buddha guida alla contemplazione delle sensazioni, della mente e degli oggetti mentali, dei sette fattori di risveglio e delle Quattro Nobili Verità. Lungi da me essere in grado di analizzare appieno le sue parole, ma è in ogni caso facile (anche ad una prima lettura) comprendere che non è solo la presenza non giudicante nel qui ed ora che viene sviluppata, come avviene invece nell’MBSR di Kabat-Zinn, che lascia eventualmente al praticante l’intuizione e l’approfondimento di tutto ciò che il Buddha dice invece con chiarezza. Solo per fare un esempio, prendiamo le Quattro Nobili Verità: il Buddha spiega qual è la sofferenza (Prima Nobile Verità), quali sono le cause/origini della sofferenza (Seconda Nobile Verità), qual è il sentiero per uscire dalla sofferenza e come va percorso (Terza nobile Verità) e come giungere alla cessazione della sofferenza (Quarta Nobile Verità). È davvero possibile per il praticante di mindfulness occidentale, con la sola consapevolezza momento per momento del corpo, del respiro, dei pensieri, delle emozioni, dei suoni, etc., arrivare da solo alla cessazione della propria sofferenza, comprendendone le origini e il sentiero per uscirne? Questo e altri temi sono al centro di un dibattito iniziato più di 25 anni fa dove Kabat-Zinn viene acccusato di avere decontestualizzato la mindfulness. Da parte sua, Kabat-Zinn e la sua scuola sostengono di averla ricontestualizzata adattandola al mondo di oggi, affermando, inoltre, che non è tanto importante a che cosa si porti attenzione, quanto piuttosto l’intensificarsi dell’attenzione in sé, l’esserci ora mentre c’è attenzione consapevoli di questo. Un punto del dibattito, infatti, è se vi sia differenza tra la consapevolezza ordinaria, comune a tutti noi, e la consapevolezza alla fine del sentiero (allenamento, pratica, training), ossia quella che la tradizione con 2500 anni di storia chiama “risveglio” e che fa chiamare il Buddha storico “il Risvegliato”. La luce è sempre luce se è quella di un raggio o quella del sole? Svolge comunque la sua funzione: illuminare. Ciò che sappiamo per certo è che la nostra consapevolezza è intermittente, e spesso instabile. Modalità come “il pilota automatico” e l’abitudine coprono i vuoti, e spesso ci vengono in soccorso. Tuttavia, le abitudini, il pilota automatico, le mappe, gli schemi e le rappresentazioni che ci guidano a reagire in modo automatico al mondo conosciuto, in un universo che cambia sempre più velocemente su tutti i livelli, possono davvero sostenerci a sufficienza? Oggi i cambiamenti non sono spesso solo quelli sottili e microscopici e per noi impercettibili, quali il ricambio in un mese di tutti gli atomi del nostro corpo senza che ce ne accorgiamo, o la vecchiaia, di cui ci accorgiamo solo dopo anni; al contrario, possono essere anche quelli macroscopici che, come tsunami, cambiano in pochi giorni il mondo intero, le nostre usanze, le nostre relazioni e i nostri diritti, tutti esempi di cambiamenti di tipo sociale, culturale, scientifico, tecnologico, etc. La pandemia del COVID-19 del 2020, in corso mentre scrivo e che ha cambiato tutto in poche settimane, ne è un valido esempio. Questo aggiunge forza alla domanda: sono sufficienti le abitudini, il pilota automatico o le mappe e rappresentazioni del mondo basate sul passato per leggere e vivere il presente? Rafforzare la consapevolezza del momento presente (es., aumentare la luce, per restare nella nostra metafora) e stabilizzarla, così che ci sia possibile percepire più dimensioni, prospettive, dinamiche, e non solo quelle già viste e conosciute, dentro e fuori, può aiutare? Allentare l’attaccamento ossessivo che abbiamo a visioni, percezioni, abitudini, anche quelle “sane” e non solo le dipendenze patologiche, ci può aiutare? Esserci, qualsiasi cosa accada. Esserci e attraversare consapevolmente quella che nel suo primo libro Kabat-Zinn chiama “la piena catastrofe del vivere” (Kabat-Zinn, 1991), quella che il Buddha chiama la Verità della sofferenza nella quale tutti siamo immersi. Se quando soffriamo non ci siamo più noi ci perdiamo. Quanto riusciamo, di fatto e senza una consapevolezza forte e stabile, ad uscire da schemi (es., dipendenze da persone o sostanze, visioni del mondo che non esistono più come erano o non esistono affatto) che si ripetono anche quando non sono più attuali e funzionali? I training sulla consapevolezza ci rendono più creativi e “liberi dalla sofferenza” del rimanere attaccati a qualcosa che non c’è più o non è mai stata come percepivamo? Quindi, anche i training di consapevolezza con 25 anni di storia, che si limitano ad insegnare momento dopo momento la consapevolezza ordinaria su corpo, respiro, suoni, colori e forme, pensieri, emozioni, etc., possano aiutarci a ri-bilanciare un eccesso di rappresentazione astratta e ridurre così stress e psicopatologia. La rappresentazione astratta, infatti, è una funzione del pensiero che rischia di diventare ruminazione non funzionale, non solo “problem solving” ma anche “problem creating”. Ci possono aiutare a creare uno spazio tra noi e le nostre emozioni e i nostri pensieri; uno spazio di scelta tra noi e la realtà interna ed esterna a cui altrimenti aderiamo, a cui letteralmente “ci appiccichiamo”, identificandoci totalmente in essa; e questo ci toglie qualsiasi spazio di scelta. Non siamo più noi a guidare la Ferrari, direbbe Gelek Rimpoche, ma è la Ferrari a guidare noi.
Tra i primi training evidence-based occidentali c’è l’MBSR, seguito poi dall’MBCT (entrato nelle linee guida NICE per la prevenzione delle ricadute nella depressione), dal DBT (anche questo training mindfulness-based entrato nelle linee guida per le strutture borderline di personalità) e dalla psicoterapia ACT, per citare solo alcuni tra i più conosciuti. C’è chi critica la definizione di mindfulness di Kabat-Zinn. Alan Wallace, ad esempio, nei suoi discorsi e articoli ci invita ad esplorare il rischio di ridurre la mindfulness solo ad esercizio di mera attenzione intenzionale e non giudicante. Sostiene infatti l’autore, forse provocatoriamente, che tale definizione descrive il solo fattore attenzionale e non la componente principale: la saggezza. I soli aspetti attentivi, infatti, sono comuni anche ai predatori (es., un serpente che punta la sua preda è attento in modo non giudicante al momento presente, momento dopo momento, benché abbia l’intenzione chiara di uccidere la preda). Alan Wallace rende evidente che questo tipo di attenzione non è quella della mindfulness, che libera da tutte le sofferenze di cui parla il Buddha indicandolo come sentiero spirituale e via all’Illuminazione (benché lui stesso, in altri contesti, sostenga che sviluppare questa attenzione “convenzionale”, che è come un raggio di sole, prima o poi ci “porterà al sole”) Altri maestri Dzochen, come Mingyur Rimpoche, suggeriscono che non è sempre una buona idea distinguere le due attenzioni come se avessero una natura diversa. La goccia d’acqua, infatti, è sempre acqua, come lo sono il lago o il mare. Non è qui che daremo una risposta definitiva a questo dibattito, ma la consapevolezza di più punti di vista aiuta a non assolutizzare le comprensioni, gli insight, che possiamo avere durante la pratica della mindfulness e a cogliere la natura relativa e interdipendente come aspetti fondamentali di quella consapevolezza saggia che è quella che si vive quando si vede la realtà per quella che è.
[1] Youtube: https://www.youtube.com/watch?v=0qGS3IL772c. How Does Mindfulness Work? A Framework for Understanding the Neurobiology of Self-Transformation”, Understanding the Neurobiological Mechanisms of Mindfulness. David Vago
[2] Chiamati anche sutta in lingua pali, cioè insegnamenti tratti dai testi buddisti.
Estratto dal libro: “Pratiche bottom-up nelle dipendenze: verso un uno approccio con se stessi e coi pazienti”