La mindfulness, esperienza allo stesso tempo comune ed eccelsa, appartiene a tutti: individui, culture, religioni, filosofie, psicologie, popoli; ma forse nessuno riesce a realizzarla appieno. Quando negli anni ‘90 viene fondato negli Stati Uniti il Center For Mindfulness (CFM), la mindfulness diviene un metodo psico-educativo per la riduzione dello stress. Successivamente, grazie alle tante ricerche scientifiche che ne hanno mostrato l’efficacia per la salute fisica e mentale, entra come parte del bagaglio culturale di molto medici, psicologici e terapeuti a livello internazionale, configurandosi come una medicina complementare per il dolore cronico e una base, un sostegno e un vero strumento operativo per le psicoterapie di terza generazione, quali l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), la Dialectical Behaviour Therapy (DBT), la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT), etc. Tutto cominciò grazie alla visione e all’intuizione di John Kabat-Zinn, avuta durante un ritiro di meditazione buddista:
«Come sarebbe bello se la meditazione buddista potesse aiutare tutti, indipendentemente dalla cultura, dalla religione, dal livello socio-culturale».
«La mindfulness, anche fuori dal contesto buddista, può aiutare tantissime persone; è solo importante che tutti abbiano chiara la differenza tra la pratica della mindfulness secolare e i sentieri buddisti».
D’altra parte, lo stesso Dalai Lama aveva affermato più volte l’importanza dei dialoghi tra scienziati e contemplativi:
«Se i metodi/strumenti del buddismo possono aiutare ad essere più felici e soffrire meno, è importante trovare il modo di insegnarli con un linguaggio secolare, cioè fuori dal contesto religioso, poiché» dice lo stesso Dalai Lama «ci sono più persone che soffrono che buddisti nel mondo, e molti di loro non credono in nessuna religione».
Anche J. Kabat-Zinn e il CFM dichiarano che la mindfulness e il protocollo MBSR non sono una decontestualizzazione del dharma, bensì una sua ricontestualizzazione. Ancora ai nostri giorni il dibattito su questo tema continua, a volte in modo acceso.
Estratto dal libro: “Pratiche bottom-up nelle dipendenze: verso un uno approccio con se stessi e coi pazienti”