Casi clinici: a volte è “semplice”, a volte un pò meno

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Articolo Pubblicato su Rivista di psicosintesi terapeutica

 

Silvia Bianchi Psicologa, psicoterapeuta della Società Italiana di Psicosintesi terapeutica (SIPT).

Psicologa per l’Associazione Nazionale Tumori (ANT). Collabora con l’istituto Lama Tzong Kapa di Buddismo Tibetano di Pomaia.

Indirizzo per la corrispondenza: silviabianchi@tiscali.it
In this article, I present two clinical cases, one which is evolving towards conclusion and the other which is at the beginning. One person seems to have solved the problem, whereas the other situation is getting more and more difficult…Both show how tumours and their evolution (towards life or towards death, depending upon the cases) entwine with other aspects of life and how relational aspects can facilitate coping or coming to terms with loss or can make these issues more difficult,; until these aspects become the real protagonists, the main characters, putting the fear of death and of illness in the background. Relational problems or successes seem to become the real life or the real death, depending on cases. This is a bit as though somebody were trying to suggest to us that if relationships with our loved ones work, then we can live even if we are dying if instead, they are too painful they can kill us even if we are still alive.
Key words: clinical cases, coping, death, relationships In questo articolo presento due casi clinici, uno oramai in conclusione e uno all’inizio.

Uno che sembra oramai risolto e uno che si complica “strada facendo”… Entrambi mettono in luce come la malattia tumorale e il suo percorso (verso la vita o verso la morte a seconda dei casi) si intreccino con gli altri aspetti della vita e come gli aspetti relazionali complichino o facilitino il coping o l’elaborazione del lutto, fino quasi a diventare loro i veri protagonisti, i soggetti in primo piano, fino quasi a mettere sullo sfondo la paura della morte e della malattia. E sembrano diventare loro, i problemi o i successi relazionali, la vera morte o vera vita a seconda dei casi.

Un po’come se ci volessero suggerire che se le relazioni con chi amiamo funzionano allora viviamo anche se stiamo morendo e se invece sono troppo dolorose ci uccidono anche se stiamo vivendo.

Parole chiave: casi clinici, coping, morte, relazioni

Vorrei presentare due casi clinici, uno oramai in conclusione e uno all’inizio.
Uno che sembra oramai risolto e uno che si complica “strada facendo”… Entrambi mettono in luce come la malattia tumorale e il suo percorso (verso la vita o verso la morte a seconda dei casi) si intreccino con gli altri aspetti della vita e come gli aspetti relazionali complichino o facilitino il coping o l’elaborazione del lutto, fino quasi a diventare loro i veri protagonisti, i soggetti in primo piano, fino quasi a mettere sullo sfondo la paura della morte e della malattia. E sembrano diventare loro, i problemi o i successi relazionali, la vera morte o vera vita a seconda dei casi. Un po’ come se ci volessero suggerire che se le relazioni con chi amiamo funzionano allora viviamo anche se stiamo morendo e se invece sono troppo dolorose ci uccidono anche se stiamo vivendo.

I SIGNORI G Il primo caso lo chiamiamo quello dei signori G.

Sarà evidente leggendo, com’è diverso (per forza di cose) l’approccio della psicoterapia a domicilio rispetto a quella nello studio privato.

I signori G sono una coppia sposata, hanno entrambi più o meno cinquanta anni d’età. Vivono in una casa modesta ma decorosa. Hanno un’unica figlia adulta che vive ancora con loro. Io li vedo al loro domicilio (lavoro per una associazione che fa servizio domiciliare) con colloqui settimanali prima individuali e poi di coppia.

Mi chiama la psicologa della ASL, mi dice che ha avuto qualche colloquio in ospedale con il signor G che è stato operato perché aveva un tumore alla gola e che ora non ha voce per parlare. “Verrà dimesso ora, e quindi io non lo posso più seguire” mi dice lei telefonicamente “ma credo che lui continui ad avere bisogno di aiuto. Gli ho detto di chiamarti”.

Mi chiama la moglie poiché lui non ha ancora l’uso della voce; prendo appuntamento per una visita a casa loro da lì ad una settimana. Devo frenare la moglie e lo stesso medico della nostra associazione che aveva fatto una prima visita al paziente; tentano infatti di raccontarmi al telefono quanto il paziente sia cattivo, violento, ubriacone e con forti disturbi psichici e relazionali.

Nonostante le mie remore riescono a dirmi entrambe, medico e moglie, di quando lui picchiò un medico e fu denunciato, del suo abuso di alcool, e della sua incapacità a gestire qualsiasi cosa, dai sentimenti alle pratiche burocratico- organizzative necessarie per il percorso di cura della sua malattia, dalle relazioni con i famigliari a quelle con il personale medico e paramedico.

Fino al punto che in effetti ho qualche titubanza ad andare a trovare a casa da sola questo paziente la prima volta. Poi vado. Mi accoglie un cane, piccolino, che abbaia molto, ringhia anche, ma nel frattempo ti segue e muove la coda.

Mi chiedo, scherzando fra me e me, se l’ambivalenza affettiva di questo cane rifletta quella della famiglia. La prima volta parlo soprattutto con il paziente, anche se mi chiedo come faremo a comunicare visto che è senza voce e non vuole scrivere perché si vergogna a causa del suo bassissimo livello culturale.

Definisco con lui e la famiglia il setting: farò prima un colloquio con lui di circa un’ora e in quel momento è bene che non ci sia nessun altro in casa; la casa è troppo piccola per pensare che gli altri non sentano i nostri colloqui.

Poi un colloquio con entrambi marito e moglie, poiché sembra chiaro che anche la moglie mi vuole parlare; a questo colloquio se vuole può partecipare anche la figlia.

Una delle prime cose che il paziente mi racconta è la sua esperienza in rianimazione.

“Il buco che ho qui in gola, lo vede? Si è aperto durante la notte e spruzzava sangue dappertutto, contro il soffitto e la parete”.

Mi sono informata chiedendo ai medici della mia equipe e mi hanno confermato che in effetti questo accade a volte dopo questi tipi di operazione.

Il paziente continua a raccontare parlando a gesti e soffiando le parole che uscivano senza il suono della voce…costringendomi quasi alla lettura labiale.

“ Io bussavo con i pugni contro la parete ma nessuno veniva. Mi hanno lasciato da solo tutta notte anche se in rianimazione ci deve sempre essere qualcuno.

I medici la mattina hanno detto a me e ai miei famigliari che ciò che ricordavo non era vero, ho avuto le allucinazioni a causa dei medicinali, ma questa cosa è successa invece, sono sicuro, c’erano alla mattina ancora le macchie di sangue fresco contro i muri”; la figlia infermiera dice di essere stata la prima ad andarlo a trovare quella mattina e conferma che c’era sangue fresco contro il muro.

Lui ne parla con il terrore negli occhi e molta rabbia.

Gli dico, riconoscendogli le sue emozioni (e l’importanza e la realtà che per lui ha avuto quel episodio) che deve avere avuto molta paura in quel momento… “ Sì, paura di morire” dice lui.

“E si deve essere sentito molto solo”, dico io.

“Sì. Vedevo il sangue che schizzava dalla gola ed ero sicuro che sarei morto ed ero solo e bussavo con tutte le forze che avevo ma nessuno mi sentiva”.

Gli rimando, un po’ come se fossi uno “specchio consapevole”, che sembra anche molto arrabbiato.

“ Sì con i medici e le infermiere” dice lui.

“Io e loro non andiamo d’accordo” – continua – “tanti anni fa quando mia madre stava male ed era ricoverata in ospedale ne ho picchiato uno che dopo mi ha denunciato. Mia madre stava molto male e aveva molto dolore e quando gli ho chiesto di darle qualcosa per aiutarla a soffrire meno lui se n’è andato… non era la prima volta che accadeva, mia madre continuava a lamentarsi in un modo straziante, così l’ho rincorso e gli ho chiesto di nuovo di fare qualcosa.

Ma lui si è girato verso di me e con tono scocciato mi ha risposto: ‘Ma cosa vuole che faccia! Tanto con quella donna non c’è più niente da fare!’. Io” – mi dice lui – “gli ho dato un pugno”.

“So di avere sbagliato ma non mi doveva rispondere così e non era giusto che lasciasse mia madre in quelle condizioni. Mia madre poi è morta. Aveva il mio stesso male e in pochi mesi è morta”.

A questo punto io capisco perché quest’uomo non vuole continuare le cure, si disinteressa a tutto e tutti ed è sicuro di morire.

Continua a dirmi “Le avevano detto che sarebbe guarita, come dicono a me ora. E’ stata operata, come me, e le avevano detto che sarebbe guarita invece in poco tempo è morta. Come succederà a me…mi dicono che guarirò ma non è vero”.

Uno dei sintomi per cui questa famiglia e il medico mi avevano chiamato era che il signor G non dormiva la notte. Da tanto. Non riusciva a dormire.

“Io di notte prego per raggiungerla, prego Dio che me la faccia incontrare di nuovo in paradiso. Le dico: ‘mamma aspettami che fra poco ci rincontriamo’ ”.

Il modo nel quale, io e lui insieme, siamo riusciti a interrompere il circolo vizioso che faceva sì che quest’uomo non dormisse la notte e fosse sempre più agitato e irritabile durante il giorno, cosa che lo portava a litigare fortemente con la moglie e poi a bere e poi litigare ancora di più e a non dormire la notte e così via, è stato un’insieme di cose che si possono riassumere forse in questi diversi momenti: 1. La mia frase che riconosceva la sua paura “ma quindi lei alla notte ha paura di morire?” “Si ma lo desidero anche, incontrerò mia madre”.

“Ha paura che le succeda di nuovo quello che le è successo in ospedale?” chiedo io.

“Si. Ed ho anche paura di soffocare. E’ terribile non respirare più e vedere schizzare il sangue dalla gola, non sai cosa ti succede e come fare. Non sai quello che ti accadrà”.

“Ho capito. E quindi è per questo che non riesce a dormire?”.

“Forse” risponde lui.

2. In effetti dopo questo scambio di parole il signor G dorme un po’ di più ma il tutto si risolve nettamente quando piano piano lavoriamo anche cognitivamente sulle differenze che ci sono fra la sua situazione attuale e quella di sua madre allora.

“ Mi sembra che lei sia sicuro che la sua malattia coincida con quella di sua madre e che il decorso della malattia sarà uguale” dico io.

“Si, esatto” dice lui “Ma i medici e i suoi famigliari le dicono altro” rispondo.

“Io non credo a loro” ribatte.

3. Abbiamo quindi fatto anche incontri famigliari nei quali l’ho spinto a chiedere tutto quello che aveva bisogno di chiedere alla famiglia che, fra l’altro, in questo caso era particolarmente sincera. Per chiarire quindi la differenza fra la sua malattia e la malattia della madre abbiamo dovuto tutti insieme lavorare sulla fiducia e la comunicazione nella relazione coniugale. Tutto questo anche per tentare di risolvere gli enormi problemi di relazione e conflittualità, letteralmente “all’ultimo respiro”, che continuavano da 30 anni fra lui e la moglie e che lui riportava come l’altra sua causa di sofferenza forte e invalidante (“Con la mi’ moglie non si và d’accordo, siamo come cane e gatto”, diceva lui).

In effetti mi accorgo anche io durante i colloqui iniziali che non c’è comunicazione fra loro e si trattano a vicenda come se l’altro fosse completamente pazzo.

Rimando ad entrambi che una delle difficoltà della coppia è che lui sembra non credere a lei e che lei invece parla con un tono di voce che a lui ricorda quello autoritario del padre che lui ha odiato.

Questo crea un grosso ostacolo alla loro comunicazione.

Mi aveva infatti raccontato lui, dopo l’episodio nel quale aveva picchiato il dottore, di come spesso gli capitasse da bambino di dovere difendere la madre dal padre violento e ubriaco. Continuava a sentire anche da grande la responsabilità di difendere e salvare sua madre. Come dimostra, fra l’altro, anche l’episodio con il dottore: lui la voleva salvare con i pochi modi che conosceva, violenti e fisici. “Non molto funzionali in effetti nella nostra società attuale” gli dicevo io e dopo qualche nostro incontro anche lui ne conveniva.

La moglie, con quel tono di voce, purtroppo gli ricordava più il padre da cui si doveva difendere che non la madre da salvare.

Dopo qualche incontro la signora G ha capito, conoscendo la storia di lui, quanto era importante che tentasse di mitigare il suo tono di voce (in effetti alto, autoritario e giudicante) quando parlava con il marito.

Per quanto riguardava lui, ad un incontro con entrambi ho chiesto al signor G. come si sentiva quando suo padre beveva e lui, bambino, doveva andarlo a prendere in paese perché ubriaco. Oppure quando il padre diventava violento anche a causa dell’alcool. Poi gli ho chiesto se poteva immaginare per un secondo sua moglie come quel bambino davanti a lui (se stesso) ubriaco.

“Forse la moglie urla e alza il tono più per paura e per difesa che non per altro” gli suggerisco.

Gli chiedo se poteva per un attimo immaginare sua moglie davanti a lui ubriaco come se stesso bambino davanti a suo padre ubriaco. Invece che immaginare sempre la moglie come il padre e se stesso come il bambino. Io credo, gli ho detto, che sua moglie sia spaventata quando lei beve. La moglie conferma e dice che ha imparato ad alzare la voce perché così le sembra di difendersi. Lui le dice che non la toccherebbe mai neanche con un dito, anche se è ubriaco. La moglie dice che è vero, non tocca lei ma rompe gli oggetti e le cose e non è facile avere in giro per casa un uomo ubriaco di quella stazza che rompe le cose e sentirsi al sicuro. Lui capisce.

Per un attimo sembra davvero avere visto nella moglie se stesso bambino e da quel momento in poi non solo cambia completamente il suo atteggiamento verso la moglie (da difensivo a protettivo) ma smette anche di bere, pare. La moglie cambia completamente il tono e i modi con lui. Sono passati diversi mesi da allora, più di sei, e la coppia ha recuperato a pieno la capacità di andare d’accordo e di comunicare. Sono stupefatti perché riescono ad andare d’accordo ora dopo 30 anni di litigi. Anche io sono stupefatta di quanto questo cambiamento sia stato immediato, chiaro e stabile.

Rimando ad entrambi che sembrano avere sia come coppia che come persone una grande risorsa: la capacità e la flessibilità di cambiare se stessi e il loro comportamenti nella relazione.

La terapia è continuata poi con incontri di coppia funzionali sopratutto al supporto e accompagnamento di entrambi alle cure e al mantenimento di una buona comunicazione. Un’altra meta della terapia è quella che entrambi trovino una nuova identità personale-famigliare-sociale e lavorativa in questa nuova situazione. Entrambi i coniugi sono stati operati alla gola (lei l’anno scorso) e quindi entrambi hanno smesso di lavorare. Lui sta finendo la radioterapia e lei deve continuare i controlli e fare cicli di radio a scadenze regolari. Hanno vissuto entrambi il crollo fisico, la paura di morire, la perdita del lavoro e delle relazioni sociali ma soprattutto la perdita dell’idea di vita che avevano prima. Ora sentono, soprattutto lei, che la vita può crollare o finire in qualsiasi momento. A lei questo crea ansia. Agitazione, insicurezza.

Và a riaprire il suo vissuto da bambina, quando doveva fare tutto da sola (la madre lavorava a tempo pieno senza pausa, perché il padre era sempre fuori, aveva altre donne e non lavorava, così la madre non aveva tempo ne per lei né per se stessa né per la casa). Lui che invece ha avuto un legame positivo e forte con la madre, nonostante le condizioni socio-famigliari è più tranquillo ora, sicuro, si affida facilmente ai pochi medici dei quali si fida, alla moglie che ora riesce in fondo ad accogliere, almeno a livello affettivo. Ha smesso di bere, è presente sia nei rapporti che nell’organizzazione della vita famigliare. Anche nel suo percorso di malattia con i medici, le cure, i medicinali.

Ora si tratta di ritrovare un senso a una vita così diversa da quella che loro immaginavano e nella quale la malattia e la morte sono compagne di viaggio che è necessario sapere accogliere ed affrontare. Già riconoscono che questa nuova situazione, pur mandandoli in crisi (loro e le loro vite), li ha fatti ritrovare, anzi, forse per la prima volta da quando si sono sposati “trovare davvero”. Sono felici di questa loro nuova situazione. Stanno molto meglio di prima a livello relazionale e affettivo. La sfida ora è quella di ritrovare una nuova identità e nuovi ruoli socio-famigliari. Nuovi lavori.

Una nuova organizzazione di sé e di vita. Ma anche una nuova definizione dello spazio-casa, prima non condiviso così intensamente come ora in quanto entrambi lavoravano fuori. La definizione degli spazi, dei territori, di chi decide cosa, come e dove, sembra per loro un lavoro quotidiano infinito. E qui a me viene in mente qualcosa che lessi tempo fa sui pesci: se sono in due, maschio e femmina, in uno spazio troppo piccolo si uccidono a vicenda mentre se lo spazio è sufficiente fanno famiglia, “fanno l’amore” e nascono entro breve tanti pesci piccolini.

Ora la sfida attuale della coppia è questa e forse qui la psicoterapia c’entrerà poco, sarà più di un supporto forse ciò di cui avranno bisogno. Un supporto alla comunicazione e alla negoziazione di spazi e tempi all’interno della casa: chi fa cosa e quando e dove.

I SIGNORI C Per contrasto ora può essere importante posare lo sguardo, anche se per breve, su un’altra coppia, un’altra situazione. È una coppia molto più giovane, più colta, lei è francese e lui italiano. Li chiamiamo i signori C. Hanno fra i 30 e i 40 anni di età. Interessi simili, una grande intesa, nessun contrasto fra loro.

E lui ha un tumore. Già in metastasi mi dice lei quando viene. Lei non vuole accettare che lui muore. Eppure sa, mi dice, che questo sta per accadere. Poi scompare. Ricompare dopo qualche mese. Lui è morto e lei non lo riesce ad accettare. Trova ingiusto che con tante coppie che si odiano… “proprio a noi doveva accadere…”.

Ha sensi di colpa per non avere detto a lui la gravità della situazione, per non avere fatto abbastanza forse, per averlo portato in Francia “ proprio là dove lui scoprì di avere un tumore. E non gli hanno fatto tutti gli esami… forse proprio quella volta che non sono andata alla visita dei medici con lui, lui non si è riuscito a spiegare in francese… forse se fossi andata anche io, quell’esame che qui in Italia fanno per prassi, lo avrebbero fatto anche là e avremo saputo subito come stavano le cose, in tempo, forse in tempo per fare qualcosa.

Forse gli ho chiesto troppo… quando gli ho chiesto di venire in Francia…”.

Mi dice con il suo italiano perfetto con l’accento inequivocabilmente francese.

Questi sensi di colpa, la sua non accettazione, il desiderio di sentirlo e incontrarlo almeno in sogno e non riuscire invece ad avere neanche ricordi vivi… tutto questo lo conosco, fa parte della fase di elaborazione del lutto, soprattutto della fase iniziale. Fase nella quale se la persona incontra il ricordo vivo o il defunto nel sogno incontra anche il dolore della perdita. E’ la fase che spesso ho visto precedere di poco alla fase di accettazione. Nel momento nel quale la persona è riuscita a ricordare o a sognare, è contenta ma sente anche tanto dolore. Perché finito il sogno e il ricordo si accorge che questa non è la realtà ora. Lui non c’è più.

Infatti è questo che accade la volta successiva. E’ questo sogno di lui, quasi allucinazione fra il sonno e la veglia, esperienza vissuta come vera durante la notte, di cui mi parla. E il dolore immenso del giorno successivo. Quando alla mattina sa che lui non c’è più.

Tutto questo non mi preoccupa come psicoterapeuta e mi sembra molto normale in questa fase.

C’è qualcosa però che non capisco nel vissuto di questa giovane donna sola: L’intensità della sua voglia di scomparire ora. Voglia di non esserci, di scomparire. Legata, dice lei, al fatto che non riesce a comunicare le sue emozioni e quello che sente agli altri. Così come le capitava prima di incontrare il compagno che ora non ha più. Con lui poteva parlare, condividere le emozioni.

La spingo a raccontare a qualcuno come sta. A non proteggere tutti, proprio tutti, dal suo dolore così come faceva con sua madre e suo padre.

Ma sento che c’è qualcosa di particolarmente pericoloso nella stanza.

Quante volte un paziente mi ha detto che non aveva più voglia di vivere e ha pensato a come togliersi da questo mondo? Questa volta sento che lei è a rischio davvero.

Non so perché. È giovane, intelligente, sembra avere mille forze e risorse.

Sembra reagire. Cerca lavoro. Non torna in Francia perché le sembrerebbe di scappare. Eppure c’è qualcosa nell’intensità con la quale mi dice che vorrebbe non esistere, scomparire che mi fa toccare questa inconsistenza, questo non esserci più, questa possibilità di negare la vita, se stessi, la storia, gli altri, l’amore, questa possibilità di dire stop e scomparire.

Sento che c’è qualcosa di reale. Che lei può davvero non esserci più. E mi domando perché. Non capisco ma glielo dico. “Mi sono spesso trovata in questa situazione con persone che mi dicevano cose simili alle tue ora e non mi preoccupavo. Questa volta sento preoccupazione. Non so perché”.

Lei torna la volta successiva e mi dice che quella frase ha fatto capire anche a lei quanto stava male. Che doveva davvero fare qualcosa, che forse qualche rischio c’era davvero.

Mi parla di sua madre, di quando la madre ha tentato di togliersi la vita .

Da lì la mamma ha iniziato a ricordare, ricordare che era stata abusata dal padre.

“ Mia madre ha grossi problemi psichici anche ora” dice. “Per questo non dico niente a mio padre. Non gli dico che è successo anche a me, ripetutamente da bambina, con quel uomo (per me non è il nonno è “ quel uomo”). Mia madre sapeva, non poteva non sapere. E anche mia nonna sapeva. Nessuno mi ha protetto. Mi mettevano a dormire nella stanza con i nonni e lui veniva a dormire prima. Perché mia madre e mia nonna lo hanno permesso? E poi è successo anche quando ero grande, quando lo sono andata a trovare in ospedale.

Ho fatto una psicoterapia in Francia per un breve periodo, per salvare il rapporto con il mio compagno. Per non distruggere il mio rapporto matrimoniale, come mia madre ha fatto con mio padre. Troppa rabbia verso gli uomini avevo.

Il mio compagno sapeva e mi ha sempre capito e aiutata. Ha avuto una pazienza infinita. Ma ora non c’è più e io sono di nuovo sola. Mia madre con la sua morte si è riavvicinata mi ha consolata e abbracciata ma continua a tradirmi, vuole che veda il film del nonno quando siamo tutti insieme, e davanti a mio padre come faccio a dire che non voglio? Ci ho provato ma lei insiste, non capisce. Non ce la faccio ad affrontare tutto questo che si riapre ora dopo la morte del mio compagno. Tornano i ricordi, torna la conflittualità con mia madre, la mia incapacità a raccontare, a lasciare che gli altri accolgano i miei segreti e il mio dolore. E’ questo il motivo per cui vorrei scomparire. Ma forse è ora di affrontare. Perché così non ce la faccio, non ce la posso fare. Forse dovrei parlare a tutta la mia famiglia ora, ma da sola ho paura, anche per le conseguenze che può portare nella relazione fra mio padre e mia madre (già mio padre la voleva lasciare figurati se gli dico di quello che mi è successo)”.

Accolgo quello che mi dice con grande attenzione. Capisco ora da dove viene la voglia di scomparire, di non esistere, il vissuto di un mondo che l’attacca, l’impossibilità a dire agli altri che sta male e a condividere le proprie emozioni. Non ha mai potuto dire, non è mai stata accolta e protetta, ha dovuto nascondere la verità pure al padre per non correre il rischio che il padre lasciasse la madre e il suo mondo famigliare, pur così nemico e ambivalente, crollasse. Appare come una persona forte, intelligente, che si sa muovere nella vita, ed è vero, ma allo stesso tempo il suo mondo emotivo più profondo è segreto, indicibile, non può essere protetto e accolto, riconosciuto se non a prezzo di fare molto male agli altri, alla madre. Così è cresciuta lei, e da questo passato di “segreti di famiglia” fa fatica ad uscire. Il mondo emotivo profondo è un po’ ancora prigioniero in quei segreti e nel rapporto con la madre. Lei sta lottando per tornare una donna libera, anche nelle parti più intime della sua persona, con tutte le sue forze. E forse sente che ora, proprio ora che per lei c’è tutto questo dolore, ora che lei sta accettando di avere perso il suo uomo, allora non è più sicura di volere proteggere la madre, non è più sicura di volere stare a questo gioco segreto. Vuole, e allo stesso tempo lo teme, che tutto sia chiaro, visibile, alla luce del sole.

Le suggerisco di pensare da qui alla prossima settimana se le sembra una buona idea contattare la psicoterapeuta che si occupava di abusi in Francia e chiedere se fa’ anche terapie famigliari, la sua famiglia è ancora in Francia.

Chiedere a lei o farsi dare una indicazione di qualcuno lì vicino a dove vivono i suoi genitori. Qualcuno che potrebbe essere presente con lei quando comunica alla famiglia quello che lei sente di non potere più non dire. Le dico: “la prossima settimana mi dici se dire questa cosa ai tuoi genitori con la presenza di un terapeuta di cui ti fidi è un vestito che puoi indossare o se non ti piace e non lo vuoi indossare”.

Tengo aperte tutte le possibilità, anche che lei mi dica che preferisce per ora non dire, ma elaborare ancora tutto questo da sola, insieme a me.

Di sicuro dentro di me c’è il dubbio che lei possa reggere da sola, senza una terapeuta famigliare presente che possa anche aiutare i genitori, ai contraccolpi famigliari di ciò che lei vorrebbe dire alla famiglia. Mi chiedo fra me e me se proprio ora con tutto questo dolore lei ce la può fare ad andare in Francia e affrontare da sola tutta questa situazione. E allo stesso tempo mi rendo conto che il lutto ha sbloccato anche questo altro groviglio spinoso relazionale, questo buco nero emotivo, questo non essere vista e protetta anche in situazioni di estremo pericolo e dolore. E la signora C per potere accettare la morte del suo uomo e continuare a vivere ha bisogno di sapere che non tornerà indietro, non ricadrà nel baratro nel quale era prima di incontrare lui.

La terapia è ancora in corso e scoprirò la prossima volta che cosa la signora C sente di poter fare.

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